“‘U lavaturu e ra vucata”

Passeggiando su Via Marconi, in prossimità del Municipio e accanto alla nostra amata fontana di Pometta, si può ammirare una vecchia costruzione che fa ormai parte del paesaggio storico paesano.
È uno di quei luoghi della nostra storia, che pazientemente restano lì, a testimonianza del nostro passato e attendono che qualcuno si ricordi di loro e vada a curiosare.
Stiamo parlando del vecchio lavatoio, che a dire il vero negli ultimi anni è stato un po’ modificato e adattato, eliminando alcune vasche per fare spazio ad un bel tavolino in pietra verde con comodi sedili.


Entrandoci e curiosando ci viene quasi da sorridere se pensiamo che questo luogo oggi meta di chi cerca un po’ di tranquillità, giovani coppie o ragazzini che cercano di sfuggire agli occhi indiscreti degli adulti, un tempo era pieno di rumori, voci, urla e sicuramente confusione. C’era tanta vita, dilagante, travolgente.

“I panni sporchi vanno lavati in casa”, dice un vecchio detto, eppure a dispetto di questo vecchio adagio non sempre è stato così.
Perché, mentre oggi, il bucato si fa comodamente tra le mura domestiche e abbiamo a disposizione moderne lavatrici, veri concentrati di tecnologia, per cui non ci resta che infilare i panni nel doblò, scegliere il programma, schiacciare un pulsante e poi tirarli fuori, magari già asciugati. Tutto in totale solitudine, senza bisogno di aiuto, un tempo non era così, anzi!! 

Senza voler tornare troppo indietro, già ai tempi dei nostri nonni, era molto diverso.
Lavare i panni era una faccenda impegnativa, rumorosa e pure molto “affollata”.
Coinvolgeva molte persone, era una autentica “faticaccia”, durava molto tempo e soprattutto veniva svolta all’esterno. In una primissima fase lungo il corso dei fiumi e poi quando si decise di rendere più agevole il lavoro delle donne, con la costruzione dei lavatoi, in paese.

A vucata si faceva più o meno ogni quindici giorni, ma nelle famiglie più povere, a causa della penuria di vestiti e biancheria era necessario farla più frequente.


Lavare la biancheria era un autentico rito che durava due giorni e aveva bisogno di tanto olio di gomito.
Inizialmente, come abbiamo detto, la vucata si faceva al fiume, trasportando la biancheria in grandi ceste, si cercava un posto abbastanza comodo, na bella gorna, e una grossa pietra abbastanza levigata, da usare come stricaturu. Quindi si bagnavano i panni, prendendosi cura di “stricare” con più attenzione quelli particolarmente sporchi, utilizzando anche sapone fatto in casa, questa operazione era chiamata assamerare.


Concluso questo primo step, i panni venivano riposti con cura nelle ceste,
ncuveddrati, e riportati a casa, ovviamente il trasporto avveniva portando queste ceste in equilibrio sulle teste, appoggiate sulla curuna, un telo di stoffa arrotolato a mo’ di cerchio che serviva da spessore e a stabilizzare il peso. Poi a casa si metteva la lissia, un preparato di cenere bollita in acqua, che si versava sull’ultimo panno vucaturu steso mmucca, e cioè in cima alla cesta.
Quest’ultimo panno doveva essere di lino, perchè lascu ossia a maglie larghe.  Quindi si lasciava riposare per tutta la notte affinché la lissia penetrasse lentamente tra i panni e il mattino seguente si toglieva e mmucca il residuo di cenere e si riportava la cesta coi panni per il risciacquo.  Quando i panni erano candidi, vrunni vrunni, e ben lavati si torcevano e si stendevano al sole.


Queste operazioni, che con la costruzione dei lavatoi, si svolgevano ormai in paese alleggerendo il lavoro delle massaie, non erano  fatte singolarmente ma in gruppi, così ci si poteva aiutare, a torcire e mpugliare il panname più grande.  In questo modo il lavoro sembrava meno duro anzi diventava occasione di socialità, per cantare, chiacchierare e informarsi dei fatti del paese.
Finito tutto, poi in casa si sistemava la biancheria nei cassetti del cummò o intra a cascia, avendo cura di mettere tra i panni un pò di spicanarda, lavanda, per rendere tutto più profumato.

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