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L’uso di tessere col telaio a mano, a Conflenti Soprano, si perde nella memoria del tempo.
Al telaio si tessevano le lenzuola, le coperte, le tovaglie, che dovevano costituire il corredo delle ragazze in vista del matrimonio.
I tessuti di ginestra, lino, seta, cotone erano belli e resistenti e spesso i capi più ricchi di ricami, disegni fantasiosi e frange si tramandavano di madre in figlia.
Il telaio che si usava a Conflenti era costruito in legno di castagno: era una struttura a forma cubica fornita di sedile per la tessitrice, di un insieme di pedali (pidacchia), della cassitta dei pettini, del lizzu (elemento fatto di fili sottili di acciaio con un occhiello al centro attraverso il quale passano i fili dell’ordito tesi tra i due liccioli). Con u Uzzu si intreccia il filo per costituire la trama.
La tessitrice azionando pidacchia e cassitta faceva viaggiare con le mani la “navetta”, in cui era depositato il filo che durante il percorso si intrecciava con la trama. In questo modo nasceva il tessuto, che, a seconda del filo adoperato e del tipo di lavorazione dava vita al prodotto finale.
Oggi esiste ancora qualche vecchio telaio ma nessuno lo utilizza più, eppure questa tradizione ha rappresentato per lungo tempo una fonte importante di reddito per tantissime famiglie.

A essa era ovviamente collegata la gelsi bachicoltura e anche la produzione di lino e la raccolta di ginestra.  

U siricu

Per un tempo lunghissimo questa pratica è stata molto fiorente nel nostro paese.
Molte donne si occupavano con pazienza di allevare il baco da seta nutrendolo con le foglie del gelso, albero che cresceva in tutte le nostre campagne e di cui si utilizzavano le foglie (u pampinu) e le more (amure janche e russe) dolci e gustose.
I fornitori di semi, negli ultimi anni, erano Micu Baccari e Pasquale Marasco. Gli allevatori ne acquistavano n’unza o nu jiritale.
Ai primi di aprile arrivavano le sementi che insieme ai gelsi venivano “benedetti” durante la settimana Santa o il 25 aprile durante la processione di San Marco.
Per una decina di giorni, circa, i semini venivano custoditi in una pezzuola di lana riposta nel seno delle donne di giorno, mentre la sera si deponeva l’involucro accanto al focolare.
Quando iniziavano a schiudersi venivano sistemati in una scatola di cartone: si coprivano con una carta bucherellata in modo che attraverso i buchini le piccole larve salivano sulla parte superiore (i semi non vitali restavano sotto) ove trovavano le foglioline tenere di gelso e cominciavano ad alimentarsi.
Man mano che le larve crescevano si ingrandiva il contenitore – cannizzi o tafareddre – e aumentava la quantità di foglie di gelso (u pampinu) tritate.

Si procedeva così fino a quando le larve, nutrendosi e crescendo, raggiungevano una certa autonomia.
Quando le larve cominciavano a emettere una secrezione (futura seta) si mettevano nei nachi e cunocchie, ossia scupuli de ilica.  I bachi vi si arrampicavano ed emettendo la seta si costituivano il bozzolo cucuddru. A questo punto si scucuddrava ossia si tiravano i bozzoli dalla cunocchia e si lasciavano riposare perché il filo di seta ha bisogno di solidificare.
I bozzoli in genere venivano venduti ai tramezzieri, ma alcune donne particolarmente abili estraevano la seta dai cucuddri con mezzi rudimentali.  Si mettevano i cucuddri in una caldaia di rame piena di acqua, e con una scupetta si raccoglievano i fili di seta e si avvolgevano nel nimulu.
Se qualche baco diventava crisalide, bucava il bozzolo e quindi si otteneva una seta di seconda scelta, che veniva usata dalle tessitrici per tessere panname misto, insieme al lino e alla ginestra.

U linu e ra jinostra

Oltre alla seta le nostre tessitrici utilizzavano anche il lino e la ginestra nei telai paesani.
Il lino era coltivato, mentre la ginestra si raccoglieva nelle nostre campagne dove cresce spontanea e in abbondanza.
Il lino si seminava in terreni abbastanza freschi; raggiungeva più o meno l’altezza del grano e si mieteva quando la pianta produceva il caratteristico fiore azzurrognolo, anche se alcune piante venivano lasciate maturare per produrre i semi che poi servivano per le produzioni dell’anno successivo.
Gli steli falciati si legavano in gregne e si lasciavano essiccare al sole; quindi si portavano alla macerazione. Le gregne legate nei sacchi si portavano al fiume, si immergevano nell’acqua corrente, si bloccavano con grosse pietre e venivano lasciate in ammollo per una ventina di giorni affinché la fibra legnosa si sfilacciasse e si prestasse alla lavorazione.
Tolte dall’acqua le gregne macerate si battevano con un mattarello di legno , infine si manganavano (col manganaru) per liberare a furia di colpi il filo buono della fibra legnosa.
La stuppa che si produceva ovviamente non era pura, considerati i mezzi rudimentali, ma si avviava lo stesso alla filatura a cui si procedeva con fusu e cunocchia.

Quindi coi telai a mano il lino si trasformava in tessuto.
Per quanto riguarda la ginestra, la raccolta avveniva a giugno, quindi si legava in mazzetti e si portava in riva al fiume dove si accendeva un fuoco all’aperto e si immergevano gli steli in una caldaia piena di acqua bollente.
I fasci di ginestra si lasciavano poi macerare sotto l’acqua corrente e quando erano inteneriti si cospargevano di sabbia e si strofinavano su uno stricaturu.
A furia di strofinare si sfilacciavano le fibre e si riducevano in filo rudimentale che poi veniva raccolto nel nimulo e tessuto per fare strofinacci da cucina (grosse) e fadali.
Passate al bucato diverse volte, le grosse diventavano più morbide e allo stesso tempo resistenti e durature.
Ogni sposa ne portava al corredo quattro o sei, e ancora oggi in fondo a qualche vecchia cascia si può ancora trovare na grossareddra de jinostra.

 

                                   Di Giuliana Carnovale.