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Le cose cambiarono con la restaurazione della feudalità agli inizi del 1500, a seguito del trattato di Granada e della pace di Blois (1504), quando in tutto il Regno di Napoli e quindi anche in Calabria i feudatari vennero reintegrati dei loro beni, ricostituendo l’antico assetto feudale.
Da questo momento in poi la storia della montagna iniziò a risentire di quello che avveniva nelle parti più basse, in stretta relazione con gli accadimenti politici che si succedevano.

La Contea di Martirano, in cui ricadeva Conflenti venne concessa ai De Gennaro da cui passò per successione ai D’Aquino, e con il ritorno dei baroni, iniziò la storia delle nostre attuali contrade.

In questo periodo infatti la popolazione accentuò il suo ritiro sui monti e cominciò a farlo in modo stanziale. 

Le continue pestilenze, le incursioni dei pirati, ottomani prima e turchi poi, lungo le coste, e soprattutto l’insostenibile oppressione fiscale crearono una situazione intollerabile che spinse la popolazione disperata ad abbandonare il paese.
Ad una parte degli abitanti per poter sopravvivere non restò altra alternativa che rifugiarsi sulla montagna, in luoghi nascosti e in condizioni molto difficili.
A pesare sulla esistenza grama della gente fu soprattutto il doppio fiscalismo, statale e baronale: una paurosa, doppia e progressiva imposizione di tributi di ogni genere che gravò su una popolazione povera di suo. A quella statale sui fuochi, il “focatico” (sui nuclei familiari), affiancata sempre con più frequenza da “donazioni o collette” straordinarie, si aggiunse quella dei baroni, diventati nel frattempo dei veri tiranni dei loro feudi, senza nessun controllo dall’alto.
Nuovi balzelli si aggiunsero con l’avvento dei D’Aquino: il famigerato diritto di “passo”, quello di “legnatico”, di “ghiandatico”, “erbatico”, ma anche usanze non tollerabili tipo il diritto alla prima notte con le spose.
In più i nuovi baroni per la riscossione dei tributi si affidarono a delinquenti e fuorilegge, che utilizzavano metodi sempre più insolenti e violenti.
La fuga dai paesi rappresentò per molti l’unica possibilità di sopravvivenza, in quanto il nomadismo era la sola forma di difesa che si poteva praticare contro gli abusi feudali.
Questo continuo spostamento di popolazione randagia, ad opera “di errami e spaturnati”, portò alla costituzione sulle pendici del Reventino di una miriade di nuovi piccoli villaggi, mimetizzati col paesaggio in luoghi nascosti e inaccessibili, lontani dalle vie di comunicazione e in mezzo a boschi inesplorati: Vallone Cupo inferiore e superiore, Sciosci, Cona, Caria, Calusci, Abritti, Stranges, Piano Croce, Costa, Passo Ceraso, Lisca, Annetta, Guglia, Savocina, Serra d’Urso, Serra d’Acino, Salicara, Termini ecc.

Molte famiglie iniziarono a spostarsi stabilmente sui monti, a coltivare in affitto i fondi della chiesa, ma anche ad appropriarsi abusivamente di terreni strappati ai boschi.
Lo spostamento di interi nuclei familiari, le cosiddette famiglie estese, dei veri e propri clan comprendenti più generazioni, che si prestavano aiuto a vicenda e scoraggiavano con la forza le visite degli esattori, fu la risposta più caratteristica alla disperazione.
Tra questi, alcuni dei più grossi, che si collocarono in alcuni punti della montagna finirono col dare il loro nome a diverse contrade montane: ad esempio, Stranges, Mercuri, Villella, Pantano etc.
Gli Stranges, che divennero col tempo affittuari dei fondi ecclesiastici di Savocina, erano un gruppo familiare proveniente da oltre il Savuto e più precisamente da Grimaldi.
Questi piccoli agglomerati agresti a struttura prettamente familiare di tipo patriarcale erano praticamente autarchici ed autosufficienti. La comunità rurale si identificava col villaggio all’interno del quale avvenivano i matrimoni, spesso anche nell’ambito dello stesso nucleo parentale.
Nascite, matrimoni e funerali erano i grandi momenti che ne scandivano l’esistenza e coinvolgevano tutta la collettività. La stessa cosa avveniva per le principali attività lavorative nei vari cicli stagionali, che insieme alle feste, rappresentavano gli unici momenti di vita sociale.

Le casupole aggrappate le une alle altre lasciavano molto a desiderare dal punto di vista igienico; ancora nel ‘700 e nell’800 non erano che miserabili tuguri coperti di paglia.
In questi piccoli villaggi si viveva una vita dura, lontani dalle vie di transito e dalle fiere e privi di contatti con l’esterno a causa dell’estrema difficoltà delle comunicazioni, dovuta alla natura impervia del suolo montagnoso e alla inagibilità delle vie durante il periodo invernale.
La successiva eversione della feudalità e l’annientamento dell’asse ecclesiastico promosso dai Francesi agli inizi dell’Ottocento, che sulla carta avrebbero dovuto favorire la popolazione, in realtà si tramutarono solo in un cambiamento di padroni.
I nuovi possidenti borghesi si sostituirono ai vecchi baroni, con un ulteriore peggioramento della situazione dovuto al fatto che vennero sottratti ai coltivatori anche i tradizionali usi civici sui terreni demaniali.
Con lo scioglimento dei terreni promiscui e la relativa quotizzazione, i contadini persero tradizionali elementi di sussistenza, come il diritto di pascolare e far legna.
La situazione si era così aggravata che ogni manifestazione del potere stabile (imposizione, coscrizione obbligatoria) era intesa come atto di soverchieria.
Nel fertile humus della reazione al potere costituito, le frange di briganti trovarono nuova linfa.
Le bande che già prosperavano nel periodo della restaurazione borbonica, proliferarono dopo l’Unità (1861), alimentate dalle prepotenze dei galantuomini locali e ingrossate dall’evasione carceraria e dalla retinenza alla leva.
I territori della nostra montagna furono percorsi dalle imprese efferate di numerosi briganti.
Ancora dopo l’Unità d’Italia nel 1861 la Calabria si trovava nella stessa difficile situazione, priva di una vera e propria rete viaria, con la ferrovia inesistente e la maggior parte dei comuni, Conflenti compreso, era privo di collegamenti interni.
Per questo motivo, questa forma di accentramento familiare che garantiva esigenze di mutua protezione e cooperazione, durò molto a lungo arrivando fino ad epoca recente, con la popolazione costretta a vivere una quasi primordiale economia di autoconsumo.

Ricerca di terreni da coltivare e “cesine”

La ricerca di nuove terre da coltivare conobbe il suo apice tra il 1860 e il 1908 a causa della crescita della popolazione. In questi anni circa i due terzi della superficie boscata, di cui era ricoperta tutta l’area montana, furono distrutti.
Il crescente bisogno di terre da coltivare, man mano che sulle falde del Reventino proliferavano gli insediamenti, portò alle cosiddette “cesine”(vocabolo diventato tristemente di uso comune), ossia a delle vere e proprie stragi di alberi e  completi annientamenti di macchie boschive.
Il terreno una volta disboscato veniva sottoposto a fuoco, e coltivato per un paio d’anni salvo poi essere abbandonato per disboscare altri pezzi. Ciò portò al progressivo depauperamento forestale con le conseguenze del dilavamento del terreno fertile e dell’inaridimento delle pendici collinari e montane.

Questa polverizzazione della popolazione, in una miriade di villaggi sperduti e isolati sui monti, precluse fin quasi ai nostri giorni a questa parte di cittadini la vita associativa, il senso del vivere insieme, rendendo estremamente difficoltose esigenze primarie come la religione o l’istruzione.
Nei centri rurali più interni e montani, la mancanza di strade e di collegamenti creava grossi problemi di convivenza civile. In alcune contrade, soprattutto nei periodi invernali di neve o straripamento dei torrenti, i figli non potevano andare a scuola e addirittura si dovevano tenere per giorni e giorni in casa i cadaveri prima di poterli portare a spalla in paese per i funerali e la sepoltura.
Questa difficile situazione si mantenne per lungo tempo, e solo la prima ondata migratoria di fine Ottocento diede un po’ di sollievo ad una popolazione che nel frattempo era cresciuta di molto (nelle famiglie c’era una media di quattro-cinque figli).