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Da piazza S. Andrea, Rosalbino Grandinetti nel 1936 decise di abbandonare il suo lavoro di ebanista e di emigrare, come tanti altri compaesani, in America in cerca di fortuna. Sessant’anni dopo, suo nipote Russell ha lasciato il suo lavoro alla Morgan Stanley per trasferirsi da New York a Seattle e dare vita con Jeff Bezos a un’idea dal nome insolito: Amazon.
In pochi anni, il sogno di un gruppo di trentenni è diventata la più grande internet company del mondo.
A luglio 2015 per la prima volta Russell, vice-president senior e responsabile mondiale dell’e-commerce del colosso americano, è venuto a Conflenti (tornandovi anche negli anni successivi) per ricevere, accompagnato dalla moglie Hanouf e dal figlio Zade, la cittadinanza onoraria nel corso di una sontuosa cerimonia.
Quel giorno dichiarò:
“Essere qui è per me una grande emozione. Mio nonno raccontava quanto fossero per lui importanti la famiglia, i parenti e il cibo. Ha sempre conservato un ottimo ricordo del paese che l’aveva visto nascere e nei suoi racconti c’erano sempre episodi legati a Conflenti. Era molto orgoglioso di essere calabrese”

Immerso nell’affetto dei compaesani, quella giornata ha consentito anche una ricostruzione storica familiare, nonché la riscoperta della vecchia abitazione di famiglia in vico VIII Garibaldi. Un paio d’anni più tardi, Russell Grandinetti è tornato a Conflenti anche con suo padre, assente dalla Calabria da oltre mezzo secolo, facendogli rivivere case e viuzze della sua infanzia.
Grande tifoso del Napoli e amante dell’Italia, dove torna in vacanza ogni anno, Russell (nome americanizzato dell’italico Rosalbino) ha sempre apprezzato le sue radici calabresi e il forte legame con la terra d’origine, mantenendo vivi i contatti con amici e parenti di Conflenti, anche da Oltreoceano.

In prossimità di Piazza Sant’Andrea, c’è un posto molto bello e caratteristico che i conflentesi ultimamente identificano come funtaneddra, ma che i più anziani preferiscono invece chiamare San Giuanni.

Vogliamo spiegarvene il motivo, perché in pochi sanno che, scendendo dal Piro verso a Chiazza, un centinaio di metri prima di arrivare, a fianco della fontanella, c’è ora una civile abitazione, a dire il vero molto bella e particolare, che un tempo era una chiesa e pure molto importante.

A ben guardare qualcosa si potrebbe intuire dall’enorme portale che dà sulla strada principale, ma essendo la chiesa stata sconsacrata molto tempo fa, non tutti ricordano e sono a conoscenza di questa storia.

La chiesa fu costruita la seconda metà del millecinquecento dai Vescio, una potente famiglia del tempo che da Martirano aveva deciso di spostarsi a Conflenti. Era la loro chiesa patronale ed era stata costruita insieme ai loro bellissimi palazzi a testimonianza della loro forza e ricchezza.  

Di questa chiesa parla il Vescovo di Martirano Michelangelo Veraldi in una relazione ‘ad limina del 1699 ed è importante sottolineare che, pur essendo la chiesa parrocchiale di Conflenti dedicata a Sant’ Andrea, la festa originaria del casale era proprio quella di San Giovanni, titolare della chiesa della famiglia Vescio.

Solo un p0′ di tempo dopo, e comunque anche per volere della potente famiglia, questa festa fu sostituita con quella della Madonna di Visora.

Da allora la chiesa di San Giovanni andò perdendo di importanza e la sua primitiva funzione, finendo gradualmente nell’abbandono del culto popolare.

Ad un certo punto venne sconsacrata diventando addirittura un negozio di pellami.

 

 Fonti storiche tratte dai libri dello studioso Vincenzo Villella

Cose bbone d’i Cujjienti

La cucina conflentese si caratterizza per la sua bontà e per la qualità e genuinità delle materie prime.
I nostri antenati, in periodi in cui gli scambi di merci erano molto limitati, sono riusciti a soddisfare i piaceri del gusto utilizzando con garbo e fantasia gli ingredienti di cui disponevano, elargiti generosamente e spesso spontaneamente dalle nostre colline.
Una cucina molto legata a quelle che erano le produzioni più importanti e caratterizzanti l’economia locale, come il miele, il vino, le castagne e un’agricoltura intensiva ed essenzialmente di autosussistenza, da cui arrivavano molti ortaggi e legumi.
È ovvio che si tratta di una cucina fondamentalmente povera, eppure, allo stesso tempo, sorprendentemente ricca in alcune sue espressioni, come quella dei dolci tipici, in cui ha raggiunto livelli di eccellenza.

Cannarutie e cose duce’

Nei tempi passati in occasione di zitaggi o altre liete ricorrenze e per le feste più sentite si ricorreva all’aiuto di abili maestre dolciere che preparavano autentiche prelibatezze: buccunotti, cuddruriaddri, cuzzupe, suspiri, turdiddri, grispeddre, panette e viscotta.

La loro abilità era fuori dal comune, addirittura creavano con la duttilissima pastella anche i cestini in cui poi presentavano le loro prelibatezze.
Alcune mastre come Licrizia Paola, Ida Raso, Maria ‘e Ddelia o Francischina Coltellaro sono rimaste famose, ma la loro arte e maestria, per fortuna, è stata tramandata molto bene, e ancora oggi Conflenti mantiene questa grande tradizione.

La tradizione ci consegna precetti assolutamente e autenticamente cujjientari per la preparazione di queste cannarutie.
Di alcune di queste autentiche prelibatezze vi forniamo le ricette con la speranza che restino per sempre patrimonio della nostra comunità. (altre le potete trovare navigando sul sito it.conflenti).

Nuciata

Per 1 kg di noci vi serviranno circa 500 gr di miele. Una volta sgusciate le noci (questo è il lavoraccio) fate bollire il miele per circa cinque minuti a fuoco lento. Aggiungete le noci e mescolate continuamente fino a quando, diventate un tutt’uno col miele, si distaccano dalla pentola. Ci vorranno all’incirca 2 minuti. A questo punto versate la poltiglia su un foglio di carta oleata (o carta forno) e stendetela in maniera uniforme. Con l’aiuto di un batticarne formate un panetto di circa 2-3 cm di spessore.  Lasciate raffreddare e tagliate a pezzettini. Cospargete di zucchero i torroncini così ottenuti e avvolgeteli in cartine per dolci (o semplicemente in carta d’alluminio). Ed ecco fatto!

Buccunotti

Ingredienti:

  • 1,5 – 2 kg di farina 00. La quantità è orientativa, dipende da quando ne assorbe l’impasto, che deve risultare morbido
  • 800 gr di zucchero
  • 800 gr di strutto
  • 12 uova
  • due bustine di lievito per dolci
  • la scorza di due limoni
  • mostarda d’uva
  • zucchero

Preparazione:

Setacciate la farina su un piano di lavoro, formando con essa una fontana nella quale mettere, uno per volta, le uova. Mescolate il tutto. In seguito, unite  impastando bene, fino a ottenere una pasta compatta con la quale formare un panetto. Non lavorate troppo l’impasto, altrimenti assorbe sempre più farina. Preparate le formine. Poi con un po’ di impasto stendete una sfoglia spessa circa mezzo centimetro. Formate delle pinne, ossia cerchi dalle dimensioni della formina, e ponetele all’interno dello stampo, facendo ben aderire. Riempite con un cucchiaino di mostarda d’uva.

Con un altro cerchio di impasto coprite la formina. Premete bene sui bordi per evitare la fuoriuscita della mustarda ed eliminate la pasta in eccesso. Ponete le forme su una teglia, non molto vicine, facendo cuocere in forno preriscaldato a 180° per 20 minuti circa. Una volta cotti fateli raffreddare, toglieteli dalle forme. Infine, infarinate nello zucchero. E sono pronti da gustare. Attenzione a non scottarvi con la mostarda!

Grispeddre

Ingredienti

  • 3 kg di patate
  • 2,5 kg di farina 00
  • 100 ml di acqua
  • 60 gr di lievito
  • sale quanto basta
  • olio di semi di girasole (in passato si usava lo strutto)

Procedimento
Lavare le patate, metterle a bollire in una pentola capiente piena d’acqua. Quando sono cotte, sbucciarle e schiacciarle. Aggiungere il sale (devono essere abbastanza salate). Sciogliere il lievito nell’acqua tiepida e buttarlo nelle patate. Mescolare bene e, man mano, buttare un po’ di farina fino a ottenere un panetto morbido. Poi scilare e dare la forma di ciambella allungata. Intanto preparare un tavolo con sopra una tovaglia, sulla quale adagiare le grispelle infarinate. Dopo di che, vanno coperte in modo che stiano al caldo. Quando sono raddoppiate di volume, preparare una padella con abbondante olio di girasole. Quando l’olio è ben caldo, iniziare a friggere fino a doratura.

Per quanto riguarda invece la cucina tipica, vi segnaliamo alcune pietanze povere, ma estremamente gustose: vrasciole ‘e risu, vecchiareddre e juri ‘e cucuzza, frittata ‘e vitarve, milangiane chine e minestra maritata stufata ccu sazizza ‘e purmune e curacchi o minestra servaggia.

 

Per ulteriori dettagli consultate il sito conflenti.italiani.it oppure il libro di Giuliana Carnovale

Tanti anni fa, le botteghe a Conflenti, indicate di solito coi nomi dei proprietari, non erano semplici negozi: erano qualcosa di più, non solo gran bazar pieni di roba. 

Oggi facciamo un giro, sospeso tra fantasia e realtà, nella storia della putiga ‘e Giuanni Adinu.

 ‘A putiga 

In bella vista nel suo negozio le forme di formaggio, mucchi di olive nere salate ed enormi barattoli di olive verdi in salamoia, uova accatastate ancora nel grande paniere, la gabbietta di frutta e verdura cresciuta all’aria buona della sua campagna era proprio lì, accostata al muro della bottega. La porta era di legno con un buco della serratura grosso come una finestra per farci girare dentro una chiave di ferro che poteva aprire una chiesa. Una targhetta in latta del Cynar sospesa da un pezzo di spago sosteneva la licenza ingiallita. Attaccati a un gancio, tre palloni che duravano il tempo di un lancio perché puntualmente, dopo una rovinosa caduta fra i rovi, si sgonfiavano miseramente.

Così curiosa osservavo romantiche bambine vestite in pizzo e altre con grandi fiocchi nei capelli raffigurate nei contenitori di latta che contenevano fermagli e ferretti d’osso e plastica sulla destra entrando. E, dietro, tanti ripiani di legno, tutti guarniti di tela bianca in ognuno dei quali era riposta un diverso formato di pasta. Ma anche prodotti in scatola, i primi dadi Knorr e doppio Brodo Star, la zona dei biscotti, del caffè in grani, l’orzo (Tre Gobbetti), miscele (miscela Leone), citrato, bustine effervescenti (Frizzina, Idrolitina). La statua della Madonnina regnava sulle bottiglie di liquori come il vermouth, la marsala, il “Millefiori” (giallo con il rametto con lo zucchero cristallizzato), l’alchermes, il Cynar, il Bianco Sarti, l’Aperol, il Rosso Antico, il Fynsec (ti dà la carica!). Poi i primi brandy, come lo Stock 84 e la Vecchia Romagna.

Le leccornie

Vicino al bancone, per la gioia dei ragazzi, c’erano, poi, barattoli di vetro tentatori con le più attraenti leccornie: dolcissime caramelle a forma di uva e chiavi, piccole giuggiole gommose e coloratissime. E ancora, bomboloni di zucchero gialli o rosa sorretti da asticelle di legno e le strisce di liquirizie. E poi lecca lecca a forma di fischietto, i frizzy pazzi che ti scoppiavano in bocca, le gingomme a forma di sigaretta. Con una di quelle sigarettine rosa ti sentivi un grande e facevi il fenomeno. Per non parlare dei mitici cicci polenti.

Il ruolo sociale 

‘A putiga ‘e Giuanni, inoltre, aveva anche un ruolo sociale nel quartiere: era un punto di riferimento per chi cercava una persona o un indirizzo, o dove si portava la posta ricevuta per errore. Era un ufficio di collocamento per chi cercava lavoro. Lì si veniva a sapere tutto quello che succedeva, di bello e di brutto: furti, matrimoni, nascite, malattie e morti. Ma era anche un luogo di incontro: qui si riunivano gli abitanti della zona. Si incontravano per scambiare qualche parola, per cercare di dimenticare un po’ le difficoltà o la stanchezza della giornata. 

‘A libretta

Poi c’era ‘a libretta consegnata a Giuanni dalla propria cliente alla fine di ogni spesa. Lui vi segnava con il lapis cosa era stato comprato, da chi e il prezzo totale di quel giorno per poi ricopiarlo sul proprio registro di bottega. Per il pagamento in differita bisognava godere di stima e fiducia da parte del bottegaio. C’era, però, un alto senso di dignità. Tutti cercavano di saldare i debiti non appena potevano. Questa usanza tipica della società contadina ha aiutato molto le famiglie a sopravvivere. Capitava, infatti, che il negoziante sapesse delle particolari difficoltà di una famiglia, dovute a malattia, alla perdita di lavoro del capofamiglia e, valutata la situazione, lasciava ai debitori più tempo per pagare. E così, attraverso il ricordo di questa bella persona, mi ritrovo in una dimensione antica fatta di relazioni vere, profonde, basate su gesti semplici quotidiani, a volte meccanici, ma assolutamente densi di vita vera.

Lucy Stranges

 

Storia di una delle famiglie più influenti di Conflenti.

Il casato più importante di Conflenti, soprattutto nei primi secoli, è stato quello dei Vescio.
La loro storia, fino alla fine del 1800 si identifica con la storia stessa del paese e del suo territorio.
I Vescio, che rivendicano origini normanne, agli allori erano di Martirano e si spostarono a Conflenti dopo la rivolta del 1512 contro il nuovo feudatario Andrea De Gennaro, inizialmente promossa e guidata proprio dai Vescio, che mal sopportavano di sottostare al nuovo signore.
Fu coi Vescio che Conflenti Sottani, da piccolo insediamento di pagliare, si trasformò in un vero e proprio casale.
La nuova ricca famiglia costruì il primo palazzo nobiliare sul costone più alto della Rupe che dominava i terreni del loro feudo: il Fiego; e subito dopo costruì anche il secondo palazzo, vicino al primo, insieme alla cappella di San Giovanni, di patronato laicale della famiglia.

 

Tra le famiglie importanti, quella dei Vescio, i cui palazzi costituirono il vero nucleo urbano del paese, era l’unica ad avere sul portale lo stemma del casato e i loro possedimenti terrieri oltre che a Conflenti, si trovavano a Decollatura, Platania e perfino a Sambiase.
I Vescio contrassero alleanze con le famiglie più potenti della Calabria, e altre legarono ai loro destini con matrimoni mirati, si pensi ai Maione di Grimaldi, ai De Medici e ai De Maio, che addirittura si spostarono a Conflenti.
La potenza dei Vescio del resto si manifestava anche nei confronti dell’autorità baronale ed ecclesiastica ed emerse già nel ‘500 in due occasioni storiche per Conflenti: la prima, l’ospitalità negata per loro volere alla Contessa Cornelia Spinelli, moglie del barone D’Aquino, in occasione della peste del 1579, consci del pericolo di contagio che in effetti poi fece strage a Conflenti Soprani che la ospito’; la seconda, la celebrazione della prima messa nel nuovo Santuario officiata non dal Vescovo, come era logico aspettarsi, ma dal vicario foraneo dei Vescio, Giampiero, e del resto nel nuovo tempio, la potente famiglia erano titolare di ben tre cappelle di jus patronato.
Il loro potere continuò per molto ancora, prova ne è un altro episodio legato a Carlo Vescio, che nel 1724, riuscì a rinchiudere nel suo palazzo un manipolo di gendarmi venuti ad arrestarlo e che liberò solo alcuni giorni dopo averli sbeffeggiati, senza che succedesse nulla.
Il tramonto del potere dei Vescio era però vicino e, già tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’’800, a causa di molteplici matrimoni con il conseguente frazionamento della proprietà, il casato iniziava a perdere la sua forza degli anni passati.

Nei primi decenni dell’800 i Vescio cominciarono a vendere le proprie terre e a trasferirsi o addirittura emigrare in America.
Quelli rimasti, rimanevano sempre una famiglia importante e ricevevano ancora il titolo di Don, ma dovevano vivere del loro lavoro. Uno di loro trasformò in negozio di pellami la loro vecchia cappella patronale di San Giovanni ormai in disuso, e altri, è il caso dei Dduoghi, vivevano di agricoltura coltivando la vecchia proprietà del Fiego.
Un detto diventato proverbiale sintetizza la vecchia potenza esercitata in passato e la successiva perdita di forza del nobile casato: “tutto finisce……anche i carlini dei Vescio.

Liberamente tratto dal libro di Vincenzo Villella: Conflenti.

Da secoli molte tradizioni legate alle festività religiose dettano i ritmi della vita conflentese.
L’Immacolata, festa che apre le porte al Natale, è sicuramente una di queste.
Un tempo il rituale che accompagnava questa festa (ancora oggi una delle feste più sentite dalla nostra comunità), era molto più articolato, ma grazie al lavoro di tanti fedeli è stato comunque tramandato nella sua essenza fino ai nostri giorni.

Le celebrazioni cominciavano il primo dicembre con la novena, che nei tempi passati si teneva alle prime luci dell’alba. La novena era vivamente partecipata dai confratelli della Congrega, che, con camice e mozzetta, assisi sugli scranni, animavano la liturgia con i loro canti in latino.

La confraternita inizialmente era composta solo dai benestanti del paese, ma col tempo si allargò a tutti. Intorno agli anni Sessanta Nzermu Calabria era il tenore e Brunu ‘e Piddricchia faceva il controcanto, mentre il coro, tra gli altri, era composto da Ntoni ‘e Cicciu, Giuanni Bricchiu, Durazziu, Larenzu u minutu. Alla tastiera era sempre Ntoni ‘e Scarpiaddru, mentre il coro dell’assemblea era composto da Michilina ‘a Riapulina, Rusina e Ancilina ‘e Piddricchia, Grazia ’a Zucchetta, Donna Gianna ccu ra viletta e tante altre.
Meritano tutti di essere ricordati, oltre che per il loro impegno, anche per i loro bellissimi soprannomi.
Ovviamente, il lavoro preparatorio iniziava molte settimane prima con la raccolta della legna che sarebbe poi servita ad alimentare la grande focara.

Alla raccolta dovevano contribuire tutti, dai ragazzini che armati di carriole facevano il giro delle case a chiedere pezzi di legno, ai più grandi che trovavano nei boschi pezzi di radici o tronchi di alberi caduti, per finire alle imprese boschive che si occupavano del trasporto.
Il momento clou ovviamente era e, rimane ancora oggi, la sera della vigilia.
In quegli anni la festa cominciava con la passeggiata della coppia dei paparagianni, figure grottesche di carta colorata su scheletro di canna, preceduti da Carru ‘e Puddruletta e Filice Sciambarella che suonavano i tommari, tamburo e grancassa battuta con la frusta di castagno, che dovevano sicutare puarci e ricogliare guagliuni, per la fiaccolata.
E di ragazzi ne raccoglievano tanti, ma proprio tanti, che dopo la messa partecipavano alla fiaccolata con i classici scruani mpeciati accesi.
La fiaccolata lungo la via principale, illuminata a giorno da centinaia di scruani, era accompagnata dalla banda musicale.

Al termine della fiaccolata si accendeva la focara e si bruciavano i paparagianni, costati tanti ma tanti giorni di lavoro.
La gente piano piano si radunava intorno al fuoco, dove al suono di zampogne e organetti si mangiava e beveva in abbondanza.
I più arditi ovviamente facevano la rituale capatina ai mandarini dell’orto sottostante.
La focara rimaneva accesa tutta la nottata, alimentata dai ragazzi fino alla mattina successiva, quando gli abitanti della zona offrivano loro caffè e dolci tipici.
Alle dieci, poi, cominciava la messa e la processione. Quindi ognuno a pranzo con la propria famiglia e poi pomeriggio di nuovo all’Immacolata per i giochi popolari: palo della cuccagna, tiro alla fune, pignata e lumia. Intanto la focara, non più alimentata, si spegneva e finiva la festa.

Oggi il rituale è stato per forza di cose accorciato, ma la festa viene ancora organizzata con impegno e dedizione dalla Confraternita, che cerca di conservare e trasmettere la tradizione alle nuove generazioni. Fino a pochi anni fa la Confraternita era retta dall’indimenticabile Priore, Rosario Floro, ormai scomparso, che riteniamo doveroso ricordare, perché era lui che si occupava di tutto: dagli scruani, alla legna, alle patate per finire al vino.Oggi il testimone è passato al nipote Pasquale, vera anima della festa.

 

 

I conflentesi sono stati grandi produttori di vino, ma anche grandi consumatori. Erano in tanti che possedevano un vigneto e, secondo le dimensioni, producevano piccole o grandi quantità di vino che esportavano o utilizzavano per il consumo casalingo.

Un bicchiere di buon vino accompagnava tutti i pasti ed era abitudine costante di offrire ad ogni ospite del vino fatto in casa. Soprattutto rosso. 

Ogni tristezza o ogni gioia veniva affogata nel vino e spesso si prendevano delle sonore piche che duravano per giorni. Matrimoni, battesimi ecc.  venivano celebrati con abbondanti libagioni.

 C’era un’espressione che circolava nel paese Si…me mbriacu, voleva dire che se qualcosa si fosse realizzato, la riuscita sarebbe stata celebrata con un’ubriacatura. 

Questa grande sete di vino veniva soddisfatta non solo nelle case, ma anche nelle cantine.

Le cantine, o putighe ‘e vinu, erano dei piccoli locali, disseminati in tutto il paese, dove si poteva bere vino locale, preso direttamente dalla botte. Si trovavano quasi sempre in magazzini a pian terreno, senza finestre e quindi scuri. 

Ce n’erano tante. A Conflenti Inferiore, in periodi diversi, c’erano quelle di Peppe a Marca; Giuanni a Marca, Michele e Sassina, Stella, Peppe Audinu. Anselmo Calabria, Pasquale u Nivaru , Mariu e Girunnu

A Conflenti Superiore Nicola e Cicciu a Polina, Maria e Costantino, Russo, Maurilio. Esse erano frequentate esclusivamente dagli uomini del popolino. Ci si andava di pomeriggio o di sera. In alcune si giocava a carte. Si beveva e si parlava. Qualche volta la discussione diventava accesa e scoppiava una lite. Qualche volta c’è scappato il morto.

Perché tante cantine? Un motivo valido è che il vino era davvero buono, rinomato in tutto il circondario e inoltre una volta il paese era molto abitato, dai quattro ai cinquemila abitanti; la gente lavorava duro nei campi e, al ritorno, amava scambiare qualche chiacchiera con gli amici e riposarsi un po’.

Poi, clienti abituali erano gli abitanti delle campagne. C’era un tempo in cui per ogni incombenza i campagnoli dovevano venire in centro paese. Matrimoni, battesimi, funerali si svolgevano nel centro storico. E venivano anche per sbrigare pratiche amministrative, per fare la spesa (non c’erano negozi nelle frazioni).  

All’epoca mancavano le strade e, sia all’andata che al ritorno, bisognava fare diversi chilometri a piedi. Quindi molti, per ritemprarsi, facevano una sosta nelle cantine prima di affrontare il ritorno. Non è un caso quindi che esse erano spesso poste strategicamente in prossimità delle vie di uscita dal paese.

Curioso ma vero: le donne non entravano mai nelle cantine e quando qualche volta venivano a riprendere i mariti, che tardavano a rientrare, si fermavano sulla soglia. Capitava però che alcuni di questi locali fossero gestiti da donne. Uno di questi era quello di Maria ‘e Costantino che si avvicendava con la figlia Sina. Quello di Nicola e Polina fu gestito per lungo tempo dalla suocera Tiresina. E, negli anni Sessanta, era ancora una donna a gestire quello in prossimità della stradella.

Conflenti vanta nelle sue antiche costruzioni, pubbliche e private, bellissimi portali in pietra tufacea intagliata. Questi portali sono stati costruiti utilizzando la caratteristica pietra di Altilia, che faceva parte come il nostro paese della contea di Martirano. Le opere sono frutto di maestranze locali, i maestri scalpellini di Altilia, che si sono quasi sempre ispirati a illustri prototipi di portali e decorazioni presenti nelle zone dell’alto Savuto e più precisamente a Rogliano, che venivano poi rielaborati con gusto e adattati alle esigenze dei committenti.
La feconda attività di questi scalpellini che hanno operato a Conflenti a partire dalla fine del ‘500 è facilmente riscontrabile osservando numerosi manufatti in pietra intagliata ubicati anche nei vicoli meno importanti e a decoro di case che di certo non possono essere definite nobiliari.

Nonostante le incurie del tempo e il gusto discutibile dell’uomo, che spesso per esigenze di confort o sicurezza ha optato per modifiche e portoni in metallo, questi portali mantengono ancora un ottimo stato di conservazione e possono essere ammirati lungo le strade più importanti del paese.
La serena bellezza di questi manufatti resta intatta e non soccombe né alle mode né al progresso tecnologico.
I portali di Conflenti così come le mensole di alcuni balconi o alcuni fregi ornamentali sono caratterizzati da un comune denominatore costituito dalla sobrietà.
Generalmente molti di essi sono simili nell’impostazione e nell’esecuzione tanto da poter essere sovrapponibili, altri presentano una maggiore articolazione a doppia fascia decorata, forse in considerazione di una migliore posizione economica e sociale dei proprietari. 

Altri ancora si discostano completamente dalla quasi serialità dei motivi ornamentali con impianti e intenti scenografici e monumentali direttamente rapportabili al peso e alla forza delle famiglie gentilizie committenti.
Basamento pronunciato con semplici motivi a riccioli, una fascia scanalata, motivi litoformi stilizzati sopra e sotto la mensola di imposta e chiave di volta più o meno pronunciata con tralci o almette o riccioli o volute affrontate, questi i motivi ricorrenti per i portali di casa Paola e Gentile in Via Vittorio Emanuele, di casa Politano e Mastroianni in via Garibaldi di casa Giudice e Stranges alla discesa del Piro.

Impostazione più elaborata, ma analoghi elementi decorativi con qualche piccola variante tra l’uno e l’altro, presentano i portali di casa Pontano, di casa Cicerone, di casa Isabella e casa Folino su via Garibaldi.
Diversi da questi i due eleganti portali di casa Calabria e casa Talarico sempre su via Garibaldi, che presentano una prima fascia bombata ed una seconda fascia coi motivi consueti, ma qui ridotti per non togliere importanza alla voluminosità dell’arco che è chiuso da una ghirlanda di fiori e foglie penduli poste ai lati della chiave di volta.
I portali più importanti ovviamente, così come si conviene all’importanza del casato, sono quelli di casa Vescio in zona Piazza S. Andrea.

Questi portali sono caratterizzati da un’impostazione monumentale e da un disegno inconsueto in cui si fondono due prototipi. In pietra calcarea presenta arco a tutto sesto e una doppia fascia. Nella prima fascia bugne rettangolari si alternano a bugne a punta di diamante affiancate, queste ultime, da rosette stilizzate. La seconda fascia è incorniciata da un arco cigliato, decorata in basso con un motivo a palmetta e volute fogliate sopra e sotto i capitelli.

In posizione fortemente aggettante si innesta sulla chiave di volta un elegante stemma a cartiglio, l’unico presente a Conflenti. Il portale è datato fine ‘500.
Il palazzo, il secondo in ordine di tempo, dei tre grandi palazzi appartenuti alla famiglia Vescio nel 1927, per volere testamentario di Raffaelino De Maio, fu lasciato alla chiesa.
Dal 1980 è tornato di nuovo di proprietà della famiglia Vescio, ma rappresenta un patrimonio della comunità di Conflenti e della Calabria intera.

 

               Liberamente tratto dal libro di Giuliana Carnovale

La superstizione che ha origini antichissime era molto diffusa a Conflenti, pur se filtrata da un atteggiamento di saggio autocontrollo.
Anche da noi, come in tutti i paesi della Calabria, esistevano dei riti a cui si attribuiva il potere di scongiurare eventi negativi o di propiziarne altri positivi e si credeva alla particolare virtù di piante, talismani o figure speciali come maghi o fattucchiere, per togliere magarie, aduacchiu o affascinu.

Ad esempio: alcune azioni era meglio non farle perché portavano male.
Le cose liete o importanti era meglio non farle di venerdì, le posate non si dovevano mettere a forma di croce, come il pane al contrario.
Erano guai in arrivo se cadeva a terra l’olio, se entrava in casa un apunaru o se si rompeva uno specchio.
Anche ai sogni era attribuito un significato, sognare la morte di un familiare gli allungava la vita e sognare pidocchi prediceva l’arrivo di soldi, mentre sognare uova bianche portava male…..e si potrebbe continuare all’infinito.
Ovviamente col diffondersi dell’istruzione e della cultura molti pregiudizi sono stati superati o si ripetono senza convinzione, eppure un forte retaggio rimane ancora molto radicato.
Un forte pregiudizio per i conflentesi è la jettatura detta anche aduacchiu.  Per quanto sia forte il senso religioso nella nostra comunità non si riesce a fare a meno di credere nell’influsso malefico dei sortilegi.
Di conseguenza quando si parla con amici, vicini o conoscenti per evitare di apparire jettatore si ricorre a qualche scongiuro tipo: foremaluacchiu o benedica e si regala qualche talismano, ferro di cavallo o corno. 

Ancora molto misterioso e temuto è laffascinu, che colpisce soprattutto bambini e persone ingenue e credulone, e cioè categorie di persone esposte all’ammirazione della gente e che poco si sanno guardare e difendere.  Talvolta basta uno sguardo o una parola di lode o di ammirazione di un amico, anche in buona fede, per restare affascinati.
Per combattere l’affascinu nei confronti dei bambini, che provocava ai malcapitati forti dolori e malessere diffuso, si ricorreva spesso a immagini sacre e sale, nascosti in piccole sacche negli indumenti intimi e alla parola “benedica” prima di ogni elogio.
Ma quando ogni precauzione risultava vana bisognava ricorrere ad un complicato intervento, u carmu, di una persona esperta.

Può carmare una magara o una comare che conosce il rituale segreto, con parole o unguenti. Se durante il carmu  la comare e l’affascinatu sbadigliano, bene; vuol dire che l’affascinu sta andando via e la vittima guarisce. Se la comare non può venire a casa, basta mandarle un indumento usato e lei opera ugualmente.
Altra credenza molto diffusa tra la gente comune è quella degli spirduri , ossia degli spettri, dei fantasmi, dell’ombra dei trapassati.
Più precisamente l’umbra è quella dei morti di morte naturale, u spirdu è quello dei morti ammazzati.
Se una persona si trova a passare dal luogo dove, si sa, è stato ammazzato qualcuno deve pensare al fatto concentrandovisi, perché se si passa sprecurati, ossia distrattamente se piglia ru spirdu e si hanno dei disturbi gravi per cui si deve andare al Santuario ed essere sottoposti a particolari pratiche esorcistiche (un tempo Donnu Stefanu, sacerdote buono e austero era specializzato nel cacciare spirdura).

 

                                              Di Giuliana Carnovale

Parlando degli antichi mestieri conflentesi non si può non raccontare dei vecchi custulieri, gli odierni sarti.

 

Quella della sartoria era un’arte praticata sia da uomini che da donne e che richiedeva molta pazienza, precisione e versatilità.

Il sarto di un tempo era un vero e proprio professionista che, grazie alle proprie abilità manuali, era capace di creare capi di abbigliamento con qualsiasi tipo di stoffa, dalle più pregiate alle più economiche, rispondendo, così, alle esigenze di tutte le fasce della popolazione.

 

‘A mastra ‘e na vota

Quando si aveva la necessità di un nuovo vestito, ci si recava dal sarto il quale prendeva le misure ai propri clienti e tagliava e cuciva l’abito da confezionare. I mastri custuliari e le mastre custulere di un tempo erano affiancati da una bella schiera di discipuli. Ricordiamo con piacere za Lella e Vittorio Paola al casale. Tumasi ‘e Betta, Mario Vescio, Nicola e za Girualima, Ida Calabria e Delfina Audino. E ancora Luicina a specchia a Santa Maria poi Lina a barona, za Ntunuzza e Sarina all’Immacolata. Queste persone hanno fatto del loro mestiere un dono, condividendo il proprio sapere gratuitamente con chi aveva voglia e passione di imparare tale mestiere. Le ragazze, infatti, nel periodo estivo andavano a imparare l’arte del cucito. E pian piano si venivano a creare gruppi affiatati.

La prima cosa che dovevi imparare dalla mastra era u suprammanu ossia il sopraffilo. A seguire a gnimatina, ovvero l’imbastitura. Si passava gradualmente alla cucitura dei bottoni e alla famosa purteddhra, vale a dire l’occhiellatura. Il laboratorio della mastra diventava anche un luogo di socializzazione per quelle ragazze che non avevano le odierne libertà. Si confidavano e si raccontavano i loro amori impossibili. Quando la sarta si allontanava le ragazze a bassa voce parlavano dei loro corteggiatori, dei vestiti che avrebbero indossato durante le feste estive. Tra canti, preghiere e cucito passavano i giorni.
E poi i ritagli sotto il tavolo sparsi qua e là e il profumo delle stoffe nuove ripiegate. Ci volle una stagione intera per imparare i punti base. 

Andando da Sarina la prima cosa che mi fece fare fu togliere le imbastiture dai vestiti. L’anno dopo ero preparata e Sarina mi affidò il primo vestito da confezionare. Dovevo fare e crucette. Capii che era vietato sbagliare perché la stoffa era costata denaro, aveva un valore. Non mi potevo permettere distrazioni e a ogni passaggio per la creazione del vestito ero più volte controllata da lei stessa per essere certa che tutto fosse fatto nella maniera corretta. Sudavo freddo e la mano mi tremava ma l’abito cominciò a prendere forma. Quando il vestito, dopo giorni di lavoro, era pronto, la mia soddisfazione fu tanta. Lei mi diceva sempre che per capire se un lavoro era stato svolto correttamente bisognava osservarlo al rovescio.

Abiti unici nel loro genere

E poi martedì arrivava Ugo, il venditore ambulante di Pedivigliano, dal quale si rifornivano i sarti. Oltre al corredo vendeva stoffe, foderami e scampoli a metraggio di ogni genere. Le donne toccavano, esaminavano attentamente i tessuti per poter immaginare come sarebbe potuto venire l’abito da realizzare.
La figura della sarta è diventata col tempo un mestiere più complesso e i giovani che intraprendono questa strada non sono molti. E che dire? Un abito cucito su misura è perfetto per il nostro corpo, molto più di un abito confezionato in serie dalle grandi catene di abbigliamento. Un abito realizzato da una mastra è unico nel suo genere.

 Liberamente tratto da un racconto di Lucy Stranges