La grande opera di riforestazione
Sul Reventino, di quella selva bruzia tanto decantata da molti storici, dopo anni e anni di continue “cesine”, ormai, non era rimasto nulla, se non ceppi e sterpaglie.
Quando a partire dal 1956, prese il via, ad opera del Corpo Forestale dello Stato (CGF) e sotto la direzione del dr Berti, l’imponente opera di sistemazione idraulico-forestale nella parte alta del territorio di Conflenti in base alla Legge Speciale Calabria, la situazione della nostra montagna era di quasi abbandono.
Erano gli anni dell’immediato dopoguerra e del grande esodo migratorio che avrebbe spopolato intere contrade del nostro territorio.
Il risultato di quella vera e propria epopea, che portò a termine la riforestazione della nostra montagna, fu immenso. La sommità e le pendici del Reventino e del Mancuso prima della grande opera erano solo spazi, poi sono diventati luoghi.
Prima erano meri ambiti geografici sconosciuti e abbandonati, ambienti neutri e astratti, distaccati dal mondo delle persone. Erano semplici superfici, sempre uguali a se stesse, nonostante il mutare della storia. Poi sono diventati luoghi abitati in rapporto con gli eventi e le attività delle piccole e grandi comunità che vi si erano insediate.
Passati da spazi a luoghi, hanno cominciato ad avere una storia e ad esercitare un ruolo importante nella vita delle persone che vi abitavano.
Prima di quella vasta opera di riforestazione e di rigenerazione umana, l’area dei nostri monti era completamente spoglia, nuda, pietrosa. La vegetazione, che in tempi non lontani era stata rigogliosa e caratterizzata soprattutto dal nobile faggio, era ormai ridotta a qualche macilenta pianta martoriata dai morsi degli animali e dalla scure degli uomini ed a cespugli di piante contorte, fra le ceppaie inaridite quasi confuse con la pietraia.
Immane si presentava il lavoro da fare per ridare a quella montagna il manto che l’aveva ricoperta per millenni e che le aveva dato il nome di Monti della pece, di quella pece bruzia celebre nell’antichità.
Il dr. Luciano Berti mise tutta la sua passione e il suo entusiasmo per realizzare un progetto che inizialmente sembrava solo un sogno: riuscire subito a popolare quelle pendici, vallate e pianori di oneste e laboriose maestranze che passo dopo passo, picconata dopo picconata, piantando e seminando, riscattassero la distrutta selva antica, facendone rifiorire una novella su tutta la montagna.
L’assunzione di molti abitanti della zona come operai nei lavori dei cantieri portò una buona boccata di ossigeno alle loro magre finanze.
La risposta della gente della montagna fu encomiabile e decisiva, anche perché “capitan Berti”, come era affettuosamente chiamato da tutti, ebbe la sensibilità e la bravura di coinvolgerla nel modo più appropriato. Ad eccezione di una primissima fase in cui i lavori furono affidati a ditte esterne, dopo si fece tutto in amministrazione diretta, affidando le mansioni più importanti a persone del luogo.
Vittorio Stranges, inizialmente assunto come “guardiano”, ben presto divenne caposquadra e subito dopo Michele Isabella assunto dapprima come caposquadra venne promosso al ruolo di “assistente diretto”, svolgendo un ruolo determinante nella grande opera.
La montagna, a partire dalla primavera di quel 1956, divenne un via vai di operatori, uomini, donne (portatrici di pietre e curatrici dei vivai), ragazzi (portatori di acqua agli operai), tutti impegnati con crescente fervore nella redenzione ambientale.
Ad un certo punto il Reventino brulicava di operai, con turni spartani di trecento operai al giorno.
Il dr Berti fin dall’inizio non volle far ricorso al sistema dei “caporali” o del “marcatempo” per il controllo dei lavoratori, ma confidò molto nel loro coinvolgimento e nella loro dignità.
Ancora a distanza di anni, nel momento di scrivere di quel grande lavoro sui vecchi “monti della pece”, sottolineò che solo “la laboriosità, la capacità e la resistenza delle maestranze locali permisero di attuare tutte le opere con le spese preventivate, rientrando nello stanziamento del progetto”.
L’imponente opera di ricostituzione forestale di circa 300 ettari, impensabile all’inizio fu portata nel giro di tre anni a termine, impiantando nel solo primo anno quasi un milione di piantine di pino laricio silano, di castagno, di robinia pseudoacacia e in più aceri e ontani nella parte più alta per passare poi negli anni successivi anche alle parti più basse.
La grande opera di riqualificazione non fu solo boschiva, furono messi in sicurezza torrenti e dirupi e fu finalmente realizzata una buona viabilità rotabile tra le diverse località.
Visto l’isolamento in cui versavano allora le tante piccole frazioni montane di Conflenti, la prima idea del dr. Berti fu quella di rendere possibile il transito di veicoli laddove prima solo gli animali e pochi uomini erano saliti su sentieri appena tracciati.
Sfruttando il tracciato delle piste esistenti, fu realizzata innanzitutto la strada Acquavona-Reventino-San Mazzeo ma subito dopo venne messa mano e resa transitabile la “via della solidarietà” che, con tanta fatica, era stata aperta dalla popolazione locale per collegare la montagna con la piana di Lamezia.
L’ingente opera di costruzione e manutenzione stradale per collegare le diverse frazioni fra di loro fu invece affidata al giovane ingegnere Isabella da poco laureato.
Senza che alcun cenno appaia nelle relazioni ufficiali, grazie alla manodopera gratuita offerta dalle maestranze locali e alla caparbietà dell’ing. Isabella, “approfittando” di quei lavori, furono allacciate alla rete viaria anche molte località e case sparse che sulla carta non erano interessate dai lavori.
Quasi a simbolo della unità d’intenti fra tecnici, operatori, operai ed abitanti, resta, fra le due vette del Reventino, al bordo della strada, la grande icona che i forestali, le guardie e gli operai hanno voluto erigere in onore di San Giovanni Gualberto Visdomini, fondatore dell’ordine benedettino dei monaci vallombrosani, patrono dei forestali d’Italia.
Con quell’opera grandiosa, quale fu la riforestazione della montagna, le popolazioni che vi si impegnarono, con la loro lunga fatica, hanno saputo creare negli anni ’50-’60 del secolo scorso i presupposti di un avvenire migliore.
Se oggi la vecchia montagna della pece mantiene intatto il suo fascino e lo spettacolare colpo d’occhio, che sta permettendo una rinascita economico-turistica di tutta la zona montana del Reventino, bisogna tenere bene a mente le parole dell’indimenticato “capitano Berti”: gli abitanti di Conflenti e delle sue frazioni montane, con la loro lunga fatica, hanno saputo creare, sul territorio, i presupposti di un avvenire migliore. E questo è un merito che le giovani generazioni non debbono dimenticare”.
Va infine sottolineato che, molti di quei giovani operai, soprattutto quelli che, con il loro attaccamento al lavoro, avevano guadagnato mansioni di “fiducia” e per questo avevano maturato molte presenze nei vari cantieri del C.F.S., con successive disposizioni di legge, vennero poi assunti stabilmente in ruolo con quelle mansioni.
La definitiva assunzione di tanta gente nella Forestale, ha in qualche modo rallentato il grande esodo migratorio di quegli anni, e permesso a molti di loro di costruirsi serenamente una famiglia e restare in loco, rappresentando nel tempo un fattore fondamentale per lo sviluppo e la crescita delle contrade montane.
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