Il paesaggio
In epoca remota tutta l’area del vasto comprensorio collinare e montano del Reventino era ricoperta da un fittissimo manto forestale che faceva parte di quella selva ininterrotta che gli storici antichi chiamavano Sylva Bruttia.
Il bosco era ricoperto da querce roverelle, farneti, cerri, ontani e castagni, mentre nella parte alta vegetavano faggi e pini.
L’intera zona è sempre stata molto ricca di acqua “Le acque sono limpide ed assai salutari, come quelle, che dall’alta pendice de’ monti sgorgando, e tra i vivi sassi rotte ed infrante, scorrono graziose in varii bellissimi ruscelli, che poi nel divisato fiume raccolte vanno umili e chete a scaricarsi nel mar Tirreno “ (Montoro- Sacre Memorie).
Difficile stabilire quando l’uomo abbia fatto la sua comparsa in questa area, di certo i primi abitanti “storici” furono transfughi di qualche tribù dei Brezii, antichi abitanti della Sila, a loro volta provenienti dai Balcani (Epiro, Tracia, Anatolia).
Un piccolo villaggio bruzio era certamente in località Costa, ben mimetizzato sul versante occidentale del Reventino, anche se gli abitanti, erano per lo più pastori itineranti.
Molto probabilmente in questa zona si rifugiarono i cittadini di Temesa dopo che la città fu distrutta da Annibale per impedire ai Romani di stabilirvisi o ancora vi giunsero schiavi ribelli dopo la sconfitta di Spartacus, (II sec a.C).
Nel periodo romano questa altura, insieme al vicino Mancuso, fu chiamata “Monte della pece”, perché i folti boschi di conifere fornivano la resina da cui si traeva, con sapiente lavorazione, la preziosa sostanza indispensabile per il calafataggio delle navi che venivano costruite negli arsenali costieri con il legno delle stesse selve. Dai “monti della pece” arrivavano pure le travi utilizzate per costruire le basiliche romane.
È in questo periodo che iniziò ad essere utilizzato il famigerato passo della “cona di San Mazzeo” che, tagliando per la montagna, permetteva di giungere più velocemente dalla via Popilia-Annia alla piana di Sant’Eufemia.
Il tratto della importante via romana scavalcava i monti, dalla stazione “Ad Fluvium Sabatum” (la valle del Savuto), a nord, fino a quella “Ad Turres” (contrada Palazzo nella Piana), a sud.
Da qui la grande importanza storica della Conca di San Mazzeo e di questo passo, pericoloso incrocio di vie tra mari e monti, passaggio di uomini e merci, dove si sono consumati misfatti e leggende.
Di certo il passo era un luogo che per essere attraversato imponeva il pagamento di “gabelle”, da qui forse il nome di San Mazzeo (da San Matteo il protettore degli esattori) e sicuramente quello della vicina località di Gabella.
Da alcuni documenti storici risulta che ancora intorno all’anno mille, a ulteriore riprova che il posto era conosciuto e trafficato, il valico della Cona di San Mazzeo continuava ad essere un punto di passaggio strategico e Roberto d’Altavilla detto Guiscardo, condottiero normanno, nel 1059, vi sostò per qualche tempo con il suo esercito (I Normanni in finibus Calabriae di Francesco Scuteri).
Sostanzialmente, comunque, fino alla fine del 1400, gli insediamenti sulla parte alta della montagna non furono mai stabili e le popolazioni che man mano vi si erano rifugiate nei momenti di difficoltà, col tempo poi, erano scese a valle.
La montagna era frequentata per lo più da pastori itineranti e da qualche fuorilegge costretto a nascondersi, e le varie vicende storiche della Calabria, con tutte le dominazioni che man mano vi si erano succedute, poco la avevano riguardata.
Come si può desumere dallo studio delle preziose Platee contenenti i fondi rustici della Mensa Vescovile, i terreni lavorati sulle alture erano quelli di Casara, Guglia, Piano del Jane, Passo del Ceraso, Savocina.
La popolazione lavorava quei fondi ma poi in genere tornava in paese, dove le condizioni per vivere erano migliori.
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