Il dialetto cambia

La lingua si evolve; continuamente. Quella che parliamo oggi non è la stessa di un secolo fa e quella che si parlerà fra un secolo non sarà più quella di oggi. Le parole sono come le persone: nascono, vivono, muoiono. Qualcuna resiste di più, altre meno. I cambiamenti succedono per motivi vari, talora lentamente, qualche volta più velocemente; oggi tutto avviene con moto accelerato perché i contatti tra i popoli sono molto più frequenti. In più radio, televisione, media favoriscono questi mutamenti.

C’è una globalizzazione anche nella lingua e assistiamo a una trasformazione continua che rende più ampie le aree di lingua comune. Per quanto riguarda il nostro dialetto è in atto una sua veloce italianizzazione. Nuove parole hanno rimpiazzato quelle antiche che sono diventate dei veri e propri reperti archeologi; è facile notare l’imbarazzo degli emigrati che, ritornando dopo anni al paese natio, usano espressioni e parole incomprensibili per i giovani d’oggi.  Nella natura è tutto in continua trasformazione; è giusto che sia così anche nella lingua.

C’è però un rovescio della medaglia: perdendo la nostra lingua, e quindi rompendo i legami con il passato, perdiamo la nostra cultura, le nostre radici, la nostra identità. Le parole non sono bottiglie vuote, ma sono ricche di contenuti. In ogni parola c’è sempre un riferimento a un fatto, a un luogo, a una o più persone, a esperienze diverse. L’uso di determinate espressioni sono legate all’ambiente, all’economia, all’emigrazione ecc.  e solo in un determinato contesto, quello paesano, assumono maggiore valenza e possono essere capite.

Le parole della lingua madre e quindi della nostra infanzia s’imprimono velocemente nella   mente e non ci abbandonano più nella nostra vita; saranno sempre come un filo conduttore invisibile che ci lega al paese e ci riporta indietro alle nostre prime esperienze, alle nostre conoscenze. Nel corso della nostra esistenza abbiamo assistito o assisteremo a mille manifestazioni di festa con grande partecipazione di gente e di grande spettacolarità, ma la festa per eccellenza resterà per sempre per noi “ ‘u  juornu ‘a madonna “. Quante volte, davanti a spettacoli grandiosi, ho sentito dei conflentesi esclamare: pare ‘a festa d’a madonna!  Ad essa, al suo nome, sono collegati l’atmosfera festosa, la religiosità della nostra gente, i miracoli, i pellegrinaggi, i digiuni, le lunghe veglie, i fuochi d’artificio ecc.

Alla parola “ jume” è legata l’immagine del nostro fiume, talora calmo, talora impetuoso  e  ‘u vuddru” ricorda i primi bagni di noi ragazzi in una  “gorna”. Quando parlo di odori e sapori risento quelli del paese: quelli del miele, dei dolci appena sfornati e nella parola fete c’è tutto l’odore nauseabondo di qualche via melmoa con i suoi zancari; tutto un mondo scomparso che, quasi per magia, ricompare immediatamente alla memoria.

Nella lingua c’è la nostra storia. L’uso di parole arabe, francesi, greche quali scirubetta, buatta, abbaggiù, grasta, catuoju indica che per periodi più o meno lunghi, popolazioni straniere si sono insediate nei nostri territori ed hanno lasciato in eredità vocaboli della loro lingua.

L’utilizzazione di parole inglesi conflentisizzate come trenciu, bossu, jobbu ecc. oltre a ricordare l’emigrazione negli Stati Uniti, rivela anche che c’è stata un’emigrazione di ritorno.

Il dialetto riflette l’ambiente circostante. Si sa che nei paesi nordici dove il freddo domina per tutto l’anno, esistono diversi nomi per indicare la neve e sono presenti molte specie di pesci; pochi sono i nomi di uccelli e di pietre; da noi invece succede il contrario: abbiamo molti nomi di pietre e di uccelli: cuti, cuticchi, staccia, rummulu, vricciu ecc. per le pietre; viscignuolu, rijiddru, pariddra, spinsu, cardiddru, calandra ecc.  per gli uccelli. Per la neve ed i pesci risolviamo il tutto nelle dita di una mano.

L’uso frequente di termini specifici per l’artigianato (sporta, timpagnu, majiddra ecc.) e l’agricoltura (vigna, ‘nnestare, scippa, scapulare ecc.) denota che la nostra gente era dedita principalmente a queste due occupazioni. I soprannomi fanno sempre riferimento alla realtà locale (crapune, turdune ecc.)

L’impiego di parole ed espressioni diverse quali ad esempio: fòcara o focàra, mangiare o manciare, cujjentaru o cujjintarru nei due borghi indica chiaramente una provenienza e un’identità diverse. L’uso di un linguaggio comune elimina queste differenze.

Cosa fare per far conoscere il dialetto e mantenerlo in vita con le nuove generazioni?

Difficile, quasi impossibile fermarne la trasformazione. Si potrebbe però, accanto allo studio dell’italiano, incoraggiarne l’uso, sia a casa che a scuola. Farne conoscere e apprezzare la ricchezza e la varietà. Valorizzarne i lati positivi.  Ricostruire la nostra identità e la nostra cultura. Riscoprire le nostre radici.

Si andrebbe verso un bilinguismo perfetto che non nuocerebbe a nessuna delle due lingue.