Escursionismo e riscoperta dello spirito dei luoghi
Il Genius Loci del Reventino
È accaduto. Forse un po’ tardi. Ma è accaduto. Anche il Reventino ha ritrovato il suo genius loci, il suo spirito del luogo. Ma dove era finita questa antica divinità secondaria, alla quale i latini assegnavano il compito di custodire l’anima del luogo? Si era persa. O meglio, era fuggita via. Esattamente come accade in una leggenda locale, dove le fate del Reventino fuggono via, offese dagli uomini.
Fuor di metafora, erano ormai molti anni che nessuno più guardava al Reventino come avevano fatto i suoi poeti, Vittorio Butera, Felice Mastroianni, Michele Pane. Nessuno più, cioè, sentiva palpitare, osservando quelle trempe boscose e ripide, l’anima della montagna. Nessuno più si chiedeva quali antiche storie racchiudessero i suoi toponimi. Nessuno più osservava con interesse, con affetto, con passione quei luoghi, che avevano visto, nei secoli, tribolare contadini e pastori, transitare pellegrini, apparire segni numinosi. Con lo spopolamento dei piccoli paesi del Reventino, era andato pian piano perdendosi uno straordinario patrimonio di memorie. E di cultura, intesa non in senso aulico, ma antropologico, cioè come un insieme di usi, tradizioni, saperi, di un popolo
Dunque è accaduto. Il genius loci, le fate del Reventino sono tornati. Come da un passato favoloso e insondabile. Per il momento, hanno preso forma nelle gambe, nella mente, nel cuore di un gruppo di giovani di Conflenti. Gambe, mente e cuore che hanno ricominciato a vedere, a guardare, con occhi nuovi, luoghi vecchi e dimenticati. Loro lo chiamano escursionismo. O, con un termine straniero, trekking. In realtà, si tratta solo di riutilizzare le gambe per l’uso a cui esse erano state inventate dal Buon Dio: non per lasciare che il nostro deretano vi si poggi sopra, seduto, magari, su una poltrona di casa o dell’ufficio, ma, come incita Henry David Thoreau, perché ci aiutino a solcare i sentieri della Terra e dello spirito.
Camminare non è uno sport. È una ricerca, invece. Camminare non ha solo una estensione geografica. Ha, prima di tutto, una dimensione interiore. Si procede sul sentiero, ma ci si addentra anche dentro noi stessi, nel profondo delle nostre memorie ancestrali. Camminare è riscoprire, ridare vita ai luoghi. E così facendo, restituire senso ai nostri paesi, alle nostre comunità, a ciascuno di noi.
Un camminatore crede che l’onda anomala della fraintesa modernità, dopo il tripudio di schiuma e la dimostrazione di potenza, lascerà sulla terra tanta distruzione, da far rabbrividire anche i più insensibili, da far indignare anche i più indifferenti.
Per questo prosegue il suo cammino, giorno dopo giorno. Per questo tributa onori a Mnemòsine la dea greca della memoria. Chi cammina sa, con Ernesto De Martino, che “alla base della vita culturale del nostro tempo sta l’esigenza di ricordare una patria. Coloro che non hanno radici e sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell’umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria”.
Francesco Bevilacqua