Il dialetto: considerazioni generali

Il dialetto è un sistema linguistico che in genere viene adoperato in un ambito geografico limitato ed è solitamente meno strutturato della lingua diventata dominante e riconosciuta come ufficiale, cioè la lingua nazionale

In Italia i dialetti regionali hanno comunque un sistema linguistico compiuto e per questo devono essere considerati vere e proprie lingue e non deformazioni della lingua ufficiale.

Tra quest’ultima (che poi non è che il dialetto toscano assurto a lingua nazionale) e gli altri non esiste alcun rapporto genetico o gerarchico.

Tutti risalgono alla comune matrice latina, ognuno poi ha avuto la propria storia, la propria evoluzione e maggiore o minore diffusione.

 

Il dialetto calabrese

Il calabrese ha quindi come ogni altro dialetto una sua autonomia linguistica e pari dignità letteraria.

Bisogna però fare presente che sotto il nome di dialetto calabrese si includono una miriade di parlate locali con marcate differenze sia nel lessico che nella fonetica.

Il grande linguista tedesco Rohlfs, forse il più grande studioso dei dialetti calabresi, li divide un po’ forzatamente in due grandi gruppi: quelli a nord di Lamezia e quelli a sud.

Conflenti, seppur con grandi peculiarità, gravita nel grande gruppo linguistico dei casali cosentini e quindi di Cosenza della cui provincia ha fatto parte fino all’Ottocento.

Le grandi diversità, che si riscontrano nell’ambito dei dialetti calabresi, sono la testimonianza evidente delle vicissitudini storiche del passato e delle molte invasioni subite perché anche la lingua subisce l’influenza dei nuovi idiomi con cui viene a contatto.

Alcuni paesi, però, per la loro posizione geografica, talora inaccessibile, sono sfuggiti a queste influenze e invasioni o le hanno subite in modo marginale e pertanto i cambiamenti linguistici sono stati relativamente pochi.

È questo il caso del nostro dialetto

A Conflenti si parla il dialetto cujjintaru o cujjentaru. Un dialetto molto antico e di uso comune nell’interno del paese.

Non difficile da capire, ha tuttavia espressioni e parole collegate all’ambiente sociale locale e comprensibili solo ai nativi. La sua vicinanza al latino volgare è rilevante e ancora oggi.

Le sue particolarità sono essenzialmente due ed entrambe rimandano alla storia del paese, alla sua origine e alla sua posizione.

1 Il dialetto conflentese ha subito scarse trasformazioni nel corso del tempo e ancora oggi costituisce una sorta di isola linguistica

Conflenti, posto ai piedi del Reventino in mezzo ai boschi, lontano dai grandi centri e pressoché privo di vie di comunicazione è rimasto per lungo tempo isolato.

Questo fatto ha contribuito a conservare il nostro dialetto per lungo tempo nella sua versione più pura e originaria; da qui il grande interesse suscitato in molti studiosi, tra cui il glottologo tedesco Gerard Rolfhs.

la sua lingua, almeno fino al XX secolo non ha avuto grandi mutamenti e non ha subìto influenze significative.

2   All’interno dello stesso paese si parlano due dialetti abbastanza diversi tra di loro

L’origine del nostro paese è avvolta nel mistero. Quello ch’è certo è che l’attuale Comune

risulta dall’unione di due paesi che sino all’Ottocento avevano usi, costumi, tradizioni e amministrazioni diverse. Anche nei due dialetti c’erano delle differenze, forse dovute a una provenienza da luoghi diverse e anche agli scarsi contatti tra le due popolazioni. Ancora oggi tra le due comunità esistono parole, espressioni, suoni differenti anche se, soprattutto a causa dello spopolamento, la lingua tende a uniformarsi.

Quando si parla di dialetto conflentese ovviamente il caposaldo irrinunciabile da cui bisogna partire è la poesia di Butera, che dopo i primi timidi tentativi letterari in lingua italiana, trovò naturale manifestare i suoi sentimenti utilizzando il dialetto conflentese.

Butera è affascinato dal fatto che in dialetto il suo pensiero e i suoi sentimenti trovano l’alveo naturale in cui scorrere, i termini e le espressioni sgorgano più liberamente dal suo cuore e dalla sua mente, si rivelano più pregnanti, hanno maggiore forza espressiva e trovano presa immediata nella gente a cui si rivolge.

Il linguaggio dialettale è più discorsivo, aderente al reale, più facilmente comprensibile e permette di trasmettere con più forza i suoi stati d’animo.

Butera in realtà trasforma un poco il dialetto conflentese forse per uniformarsi agli altri poeti dialettali ed avere una platea potenziale di lettori più ampia. Questa pare la ragione più plausibile della trasformazione più evidente del nostro caratteristico ddra in lla (chiddra in chilla per esempio) nelle sue poesie.

Malgrado queste “piccole licenze” la poesia di Butera rimane il punto di partenza irrinunciabile per chiunque tenta di avvicinarsi allo studio del nostro dialetto.

La lingua si evolve; continuamente. Quella che parliamo oggi non è la stessa di un secolo fa e quella che si parlerà fra un secolo non sarà più quella di oggi. Le parole sono come le persone: nascono, vivono, muoiono. Qualcuna resiste di più, altre meno. I cambiamenti succedono per motivi vari, talora lentamente, qualche volta più velocemente; oggi tutto avviene con moto accelerato perché i contatti tra i popoli sono molto più frequenti. In più radio, televisione, media favoriscono questi mutamenti.

C’è una globalizzazione anche nella lingua e assistiamo a una trasformazione continua che rende più ampie le aree di lingua comune. Per quanto riguarda il nostro dialetto è in atto una sua veloce italianizzazione. Nuove parole hanno rimpiazzato quelle antiche che sono diventate dei veri e propri reperti archeologi; è facile notare l’imbarazzo degli emigrati che, ritornando dopo anni al paese natio, usano espressioni e parole incomprensibili per i giovani d’oggi.  Nella natura è tutto in continua trasformazione; è giusto che sia così anche nella lingua.

C’è però un rovescio della medaglia: perdendo la nostra lingua, e quindi rompendo i legami con il passato, perdiamo la nostra cultura, le nostre radici, la nostra identità. Le parole non sono bottiglie vuote, ma sono ricche di contenuti. In ogni parola c’è sempre un riferimento a un fatto, a un luogo, a una o più persone, a esperienze diverse. L’uso di determinate espressioni sono legate all’ambiente, all’economia, all’emigrazione ecc.  e solo in un determinato contesto, quello paesano, assumono maggiore valenza e possono essere capite.

Le parole della lingua madre e quindi della nostra infanzia s’imprimono velocemente nella   mente e non ci abbandonano più nella nostra vita; saranno sempre come un filo conduttore invisibile che ci lega al paese e ci riporta indietro alle nostre prime esperienze, alle nostre conoscenze. Nel corso della nostra esistenza abbiamo assistito o assisteremo a mille manifestazioni di festa con grande partecipazione di gente e di grande spettacolarità, ma la festa per eccellenza resterà per sempre per noi “ ‘u  juornu ‘a madonna “. Quante volte, davanti a spettacoli grandiosi, ho sentito dei conflentesi esclamare: pare ‘a festa d’a madonna!  Ad essa, al suo nome, sono collegati l’atmosfera festosa, la religiosità della nostra gente, i miracoli, i pellegrinaggi, i digiuni, le lunghe veglie, i fuochi d’artificio ecc.

Alla parola “ jume” è legata l’immagine del nostro fiume, talora calmo, talora impetuoso  e  ‘u vuddru” ricorda i primi bagni di noi ragazzi in una  “gorna”. Quando parlo di odori e sapori risento quelli del paese: quelli del miele, dei dolci appena sfornati e nella parola fete c’è tutto l’odore nauseabondo di qualche via melmoa con i suoi zancari; tutto un mondo scomparso che, quasi per magia, ricompare immediatamente alla memoria.

Nella lingua c’è la nostra storia. L’uso di parole arabe, francesi, greche quali scirubetta, buatta, abbaggiù, grasta, catuoju indica che per periodi più o meno lunghi, popolazioni straniere si sono insediate nei nostri territori ed hanno lasciato in eredità vocaboli della loro lingua.

L’utilizzazione di parole inglesi conflentisizzate come trenciu, bossu, jobbu ecc. oltre a ricordare l’emigrazione negli Stati Uniti, rivela anche che c’è stata un’emigrazione di ritorno.

Il dialetto riflette l’ambiente circostante. Si sa che nei paesi nordici dove il freddo domina per tutto l’anno, esistono diversi nomi per indicare la neve e sono presenti molte specie di pesci; pochi sono i nomi di uccelli e di pietre; da noi invece succede il contrario: abbiamo molti nomi di pietre e di uccelli: cuti, cuticchi, staccia, rummulu, vricciu ecc. per le pietre; viscignuolu, rijiddru, pariddra, spinsu, cardiddru, calandra ecc.  per gli uccelli. Per la neve ed i pesci risolviamo il tutto nelle dita di una mano.

L’uso frequente di termini specifici per l’artigianato (sporta, timpagnu, majiddra ecc.) e l’agricoltura (vigna, ‘nnestare, scippa, scapulare ecc.) denota che la nostra gente era dedita principalmente a queste due occupazioni. I soprannomi fanno sempre riferimento alla realtà locale (crapune, turdune ecc.)

L’impiego di parole ed espressioni diverse quali ad esempio: fòcara o focàra, mangiare o manciare, cujjentaru o cujjintarru nei due borghi indica chiaramente una provenienza e un’identità diverse. L’uso di un linguaggio comune elimina queste differenze.

Cosa fare per far conoscere il dialetto e mantenerlo in vita con le nuove generazioni?

Difficile, quasi impossibile fermarne la trasformazione. Si potrebbe però, accanto allo studio dell’italiano, incoraggiarne l’uso, sia a casa che a scuola. Farne conoscere e apprezzare la ricchezza e la varietà. Valorizzarne i lati positivi.  Ricostruire la nostra identità e la nostra cultura. Riscoprire le nostre radici.

Si andrebbe verso un bilinguismo perfetto che non nuocerebbe a nessuna delle due lingue.

Il dialetto rappresenta la nostra etichetta, le nostre radici, la nostra carta d’identità.
In ogni sua espressione, nei proverbi e persino dietro l’uso di ogni singola parola si celano storie, forme di vita, atteggiamenti e pregiudizi.
Amare il dialetto, usarlo nel quotidiano e insegnarlo ai nostri figli, significa essere possessori di una grande eredità: l’eredità della nostra storia.

Il dialetto possiede una forza espressiva e descrittiva genuina e ineguagliabile che deriva dal suo verismo: con esso è più facile esprimere sentimenti, valori o stati d’animo.
Esso è vicino alla vita quotidiana e rappresenta una diversità di radici storiche, di culture ed esperienze umane che non deve essere perduta, ma va mantenuta, difesa, valorizzata e divulgata.

Il dialetto conserva al suo interno, nelle sue parole, la storia e la cultura della comunità che lo parla. E grazie alle parole e per mezzo delle parole è possibile risalire al bagaglio di una civiltà in parte scomparsa, perché soffocata da tecniche e strumenti nuovi, ma utile comunque a chi voglia ritrovare in quelle parole una dimensione umana dimenticata o soffocata da quella dirompente livellatrice chiamata modernità.

Salvare dunque anche una sola parola in qualche modo dimenticata significa spesso salvare una parte di storia di una comunità, della sua cultura.
Per questo motivo siamo orgogliosi di ospitare sul nostro sito il grandissimo lavoro portato avanti dal prof. Antonio Coltellaro riguardante il vocabolario del dialetto conflentese.

Sezione curata da Antonio Coltellaro