Conflenti, con una superficie di 29,70 mq, è uno dei comuni più vasti della montagna lametina. Il territorio si estende dalla zona del Savuto sino al di là del Mancuso, verso il mare, e partendo da 200 mt s.l.m. circa (torrente Mentaro in località Cirignano), sale fino alla vetta del Reventino (cima Le Croci di Conflenti) a mt 1410 s.l.m.

Sul Reventino, di quella selva bruzia tanto decantata da molti storici, dopo anni e anni di continue “cesine”, ormai, non era rimasto nulla, se non ceppi e sterpaglie.

Comandante Berti

Quando a partire dal 1956, prese il via, ad opera del Corpo Forestale dello Stato (CGF) e sotto la direzione del dr Berti, l’imponente opera di sistemazione idraulico-forestale nella parte alta del territorio di Conflenti in base alla Legge Speciale Calabria, la situazione della nostra montagna era di quasi abbandono.
Erano gli anni dell’immediato dopoguerra e del grande esodo migratorio che avrebbe spopolato intere contrade del nostro territorio.
Il risultato di quella vera e propria epopea, che portò a termine la riforestazione della nostra montagna, fu immenso. La sommità e le pendici del Reventino e del Mancuso prima della grande opera erano solo spazi, poi sono diventati luoghi.
Prima erano meri ambiti geografici sconosciuti e abbandonati, ambienti neutri e astratti, distaccati dal mondo delle persone. Erano semplici superfici, sempre uguali a se stesse, nonostante il mutare della storia. Poi sono diventati luoghi abitati in rapporto con gli eventi e le attività delle piccole e grandi comunità che vi si erano insediate.
Passati da spazi a luoghi, hanno cominciato ad avere una storia e ad esercitare un ruolo importante nella vita delle persone che vi abitavano. 

Prima di quella vasta opera di riforestazione e di rigenerazione umana, l’area dei nostri monti era completamente spoglia, nuda, pietrosa. La vegetazione, che in tempi non lontani era stata rigogliosa e caratterizzata soprattutto dal nobile faggio, era ormai ridotta a qualche macilenta pianta martoriata dai morsi degli animali e dalla scure degli uomini ed a cespugli di piante contorte, fra le ceppaie inaridite quasi confuse con la pietraia.
Immane si presentava il lavoro da fare per ridare a quella montagna il manto che l’aveva ricoperta per millenni e che le aveva dato il nome di Monti della pece, di quella pece bruzia celebre nell’antichità.
Il dr. Luciano Berti mise tutta la sua passione e il suo entusiasmo per realizzare un progetto che inizialmente sembrava solo un sogno: riuscire subito a popolare quelle pendici, vallate e pianori di oneste e laboriose maestranze che passo dopo passo, picconata dopo picconata, piantando e seminando, riscattassero la distrutta selva antica, facendone rifiorire una novella su tutta la montagna.

Il piccolo Ufficio Postale

L’assunzione di molti abitanti della zona come operai nei lavori dei cantieri portò una buona boccata di ossigeno alle loro magre finanze.
La risposta della gente della montagna fu encomiabile e decisiva, anche perché “capitan Berti”, come era affettuosamente chiamato da tutti, ebbe la sensibilità e la bravura di coinvolgerla nel modo più appropriato. Ad eccezione di una primissima fase in cui i lavori furono affidati a ditte esterne, dopo si fece tutto in amministrazione diretta, affidando le mansioni più importanti a persone del luogo. 

Vittorio Stranges, inizialmente assunto come “guardiano”, ben presto divenne caposquadra e subito dopo Michele Isabella assunto dapprima come caposquadra venne promosso al ruolo di “assistente diretto”, svolgendo un ruolo determinante nella grande opera.
La montagna, a partire dalla primavera di quel 1956, divenne un via vai di operatori, uomini, donne (portatrici di pietre e curatrici dei vivai), ragazzi (portatori di acqua agli operai), tutti impegnati con crescente fervore nella redenzione ambientale. 

Ad un certo punto il Reventino brulicava di operai, con turni spartani di trecento operai al giorno.
Il dr Berti fin dall’inizio non volle far ricorso al sistema dei “caporali” o del “marcatempo” per il controllo dei lavoratori, ma confidò molto nel loro coinvolgimento e nella loro dignità.
Ancora a distanza di anni, nel momento di scrivere di quel grande lavoro sui vecchi “monti della pece”, sottolineò che solo “la laboriosità, la capacità e la resistenza delle maestranze locali permisero di attuare tutte le opere con le spese preventivate, rientrando nello stanziamento del progetto”.
L’imponente opera di ricostituzione forestale di circa 300 ettari, impensabile all’inizio fu portata nel giro di tre anni a termine, impiantando nel solo primo anno quasi un milione di piantine di pino laricio silano, di castagno, di robinia pseudoacacia e in più aceri e ontani nella parte più alta per passare poi negli anni successivi anche alle parti più basse.

La grande opera di riqualificazione non fu solo boschiva, furono messi in sicurezza torrenti e dirupi e fu finalmente realizzata una buona viabilità rotabile tra le diverse località.
Visto l’isolamento in cui versavano allora le tante piccole frazioni montane di Conflenti, la prima idea del dr. Berti fu quella di rendere possibile il transito di veicoli laddove prima solo gli animali e pochi uomini erano saliti su sentieri appena tracciati.
Sfruttando il tracciato delle piste esistenti, fu realizzata innanzitutto la strada Acquavona-Reventino-San Mazzeo ma subito dopo venne messa mano e resa transitabile la “via della solidarietà” che, con tanta fatica, era stata aperta dalla popolazione locale per collegare la montagna con la piana di Lamezia.
L’ingente opera di costruzione e manutenzione stradale per collegare le diverse frazioni fra di loro fu invece affidata al giovane ingegnere Isabella da poco laureato.
Senza che alcun cenno appaia nelle relazioni ufficiali, grazie alla manodopera gratuita offerta dalle maestranze locali e alla caparbietà dell’ing. Isabella, “approfittando” di quei lavori, furono allacciate alla rete viaria anche molte località e case sparse che sulla carta non erano interessate dai lavori.

Quasi a simbolo della unità d’intenti fra tecnici, operatori, operai ed abitanti, resta, fra le due vette del Reventino, al bordo della strada, la grande icona che i forestali, le guardie e gli operai hanno voluto erigere in onore di San Giovanni Gualberto Visdomini, fondatore dell’ordine benedettino dei monaci vallombrosani, patrono dei forestali d’Italia. 

Con quell’opera grandiosa, quale fu la riforestazione della montagna, le popolazioni che vi si impegnarono, con la loro lunga fatica, hanno saputo creare negli anni ’50-’60 del secolo scorso i presupposti di un avvenire migliore.
Se oggi la vecchia montagna della pece mantiene intatto il suo fascino e lo spettacolare colpo d’occhio, che sta permettendo una rinascita economico-turistica di tutta la zona montana del Reventino, bisogna tenere bene a mente le parole dell’indimenticato “capitano Berti”: gli abitanti di Conflenti e delle sue frazioni montane, con la loro lunga fatica, hanno saputo creare, sul territorio, i presupposti di un avvenire migliore. E questo è un merito che le giovani generazioni non debbono dimenticare”.
Va infine sottolineato che, molti di quei giovani operai, soprattutto quelli che, con il loro attaccamento al lavoro, avevano guadagnato mansioni di “fiducia” e per questo avevano maturato molte presenze nei vari cantieri del C.F.S., con successive disposizioni di legge, vennero poi assunti stabilmente in ruolo con quelle mansioni.
La definitiva assunzione di tanta gente nella Forestale, ha in qualche modo rallentato il grande esodo migratorio di quegli anni, e permesso a molti di loro di costruirsi serenamente una famiglia e restare in loco, rappresentando nel tempo un fattore fondamentale per lo sviluppo e la crescita delle contrade montane.

L’emigrazione si configurò come unica risposta a questa situazione di crisi, di vera e propria emergenza sociale. Le rimesse in valuta consentirono a coloro che erano rimasti nei luoghi d’origine condizioni di vita più umane, un miglioramento nel vitto e nelle abitazioni, una riduzione dell’analfabetismo, l’introduzione e l’utilizzo di macchine agricole, e soprattutto si cominciò a comprendere che era possibile cambiare quella situazione.
Nata dalla rassegnazione, l’emigrazione pian piano riuscì a vincere la rassegnazione. Essa è stata l’occasione storica che ha dato alle nostre genti l’unica possibilità non violenta di emanciparsi dalla miseria materiale e culturale.
Il fascismo e la successiva chiusura fecero ripiombare la popolazione delle frazioni montane nella condizione di sovraffollamento e isolamento precedente, anche se finalmente vennero aperte scuole, e questo negli anni successivi si rivelò importantissimo.

Scuola di Salicara

Col secondo dopoguerra, finalmente qualcosa cambiò. La ripresa dell’emigrazione diede di nuovo sfogo alla crescita della popolazione, anche se il fatto che non più singoli abitanti, ma intere famiglie, si trasferissero all’estero produsse effetti deleteri.  Si ebbe lo spopolamento di alcune intere frazioni, come Vallone Cupo superiore, con il conseguente abbandono di case e terreni coltivati con gravi danni per l’economia.  Ad esempio, scomparve quasi completamente la raccolta, la lavorazione e vendita delle castagne, che precedentemente costituiva una delle principali fonti di reddito.
Contemporaneamente, però, questo esodo produsse nella popolazione rimasta una definitiva presa di coscienza della difficile situazione in cui si viveva ed un impegno sempre crescente della volontà di modificarla.
Ci fu inizialmente un tentativo di occupazione delle terre sulle falde del Reventino, a seguito della riforma Gullo, che però andò a vuoto e si concluse con la denuncia e il successivo arresto di tutti gli organizzatori. 

Strada della solidarietà

Il processo di affrancamento da quella situazione era però diventato irreversibile e gli abitanti della montagna con il loro duro lavoro iniziarono a creare un minimo di collegamenti tra le diverse contrade e soprattutto si aprirono, a forza di piccone e badile, un varco verso la piana di Lamezia con la ormai famosa “strada della solidarietà”, rompendo l’antico isolamento.
Altrettanto importante in questo contesto fu la grande opera di riqualificazione della montagna, che rappresentò un altro decisivo passo verso il cambiamento.      

Le cose cambiarono con la restaurazione della feudalità agli inizi del 1500, a seguito del trattato di Granada e della pace di Blois (1504), quando in tutto il Regno di Napoli e quindi anche in Calabria i feudatari vennero reintegrati dei loro beni, ricostituendo l’antico assetto feudale.
Da questo momento in poi la storia della montagna iniziò a risentire di quello che avveniva nelle parti più basse, in stretta relazione con gli accadimenti politici che si succedevano.

La Contea di Martirano, in cui ricadeva Conflenti venne concessa ai De Gennaro da cui passò per successione ai D’Aquino, e con il ritorno dei baroni, iniziò la storia delle nostre attuali contrade.

In questo periodo infatti la popolazione accentuò il suo ritiro sui monti e cominciò a farlo in modo stanziale. 

Le continue pestilenze, le incursioni dei pirati, ottomani prima e turchi poi, lungo le coste, e soprattutto l’insostenibile oppressione fiscale crearono una situazione intollerabile che spinse la popolazione disperata ad abbandonare il paese.
Ad una parte degli abitanti per poter sopravvivere non restò altra alternativa che rifugiarsi sulla montagna, in luoghi nascosti e in condizioni molto difficili.
A pesare sulla esistenza grama della gente fu soprattutto il doppio fiscalismo, statale e baronale: una paurosa, doppia e progressiva imposizione di tributi di ogni genere che gravò su una popolazione povera di suo. A quella statale sui fuochi, il “focatico” (sui nuclei familiari), affiancata sempre con più frequenza da “donazioni o collette” straordinarie, si aggiunse quella dei baroni, diventati nel frattempo dei veri tiranni dei loro feudi, senza nessun controllo dall’alto.
Nuovi balzelli si aggiunsero con l’avvento dei D’Aquino: il famigerato diritto di “passo”, quello di “legnatico”, di “ghiandatico”, “erbatico”, ma anche usanze non tollerabili tipo il diritto alla prima notte con le spose.
In più i nuovi baroni per la riscossione dei tributi si affidarono a delinquenti e fuorilegge, che utilizzavano metodi sempre più insolenti e violenti.
La fuga dai paesi rappresentò per molti l’unica possibilità di sopravvivenza, in quanto il nomadismo era la sola forma di difesa che si poteva praticare contro gli abusi feudali.
Questo continuo spostamento di popolazione randagia, ad opera “di errami e spaturnati”, portò alla costituzione sulle pendici del Reventino di una miriade di nuovi piccoli villaggi, mimetizzati col paesaggio in luoghi nascosti e inaccessibili, lontani dalle vie di comunicazione e in mezzo a boschi inesplorati: Vallone Cupo inferiore e superiore, Sciosci, Cona, Caria, Calusci, Abritti, Stranges, Piano Croce, Costa, Passo Ceraso, Lisca, Annetta, Guglia, Savocina, Serra d’Urso, Serra d’Acino, Salicara, Termini ecc.

Molte famiglie iniziarono a spostarsi stabilmente sui monti, a coltivare in affitto i fondi della chiesa, ma anche ad appropriarsi abusivamente di terreni strappati ai boschi.
Lo spostamento di interi nuclei familiari, le cosiddette famiglie estese, dei veri e propri clan comprendenti più generazioni, che si prestavano aiuto a vicenda e scoraggiavano con la forza le visite degli esattori, fu la risposta più caratteristica alla disperazione.
Tra questi, alcuni dei più grossi, che si collocarono in alcuni punti della montagna finirono col dare il loro nome a diverse contrade montane: ad esempio, Stranges, Mercuri, Villella, Pantano etc.
Gli Stranges, che divennero col tempo affittuari dei fondi ecclesiastici di Savocina, erano un gruppo familiare proveniente da oltre il Savuto e più precisamente da Grimaldi.
Questi piccoli agglomerati agresti a struttura prettamente familiare di tipo patriarcale erano praticamente autarchici ed autosufficienti. La comunità rurale si identificava col villaggio all’interno del quale avvenivano i matrimoni, spesso anche nell’ambito dello stesso nucleo parentale.
Nascite, matrimoni e funerali erano i grandi momenti che ne scandivano l’esistenza e coinvolgevano tutta la collettività. La stessa cosa avveniva per le principali attività lavorative nei vari cicli stagionali, che insieme alle feste, rappresentavano gli unici momenti di vita sociale.

Le casupole aggrappate le une alle altre lasciavano molto a desiderare dal punto di vista igienico; ancora nel ‘700 e nell’800 non erano che miserabili tuguri coperti di paglia.
In questi piccoli villaggi si viveva una vita dura, lontani dalle vie di transito e dalle fiere e privi di contatti con l’esterno a causa dell’estrema difficoltà delle comunicazioni, dovuta alla natura impervia del suolo montagnoso e alla inagibilità delle vie durante il periodo invernale.
La successiva eversione della feudalità e l’annientamento dell’asse ecclesiastico promosso dai Francesi agli inizi dell’Ottocento, che sulla carta avrebbero dovuto favorire la popolazione, in realtà si tramutarono solo in un cambiamento di padroni.
I nuovi possidenti borghesi si sostituirono ai vecchi baroni, con un ulteriore peggioramento della situazione dovuto al fatto che vennero sottratti ai coltivatori anche i tradizionali usi civici sui terreni demaniali.
Con lo scioglimento dei terreni promiscui e la relativa quotizzazione, i contadini persero tradizionali elementi di sussistenza, come il diritto di pascolare e far legna.
La situazione si era così aggravata che ogni manifestazione del potere stabile (imposizione, coscrizione obbligatoria) era intesa come atto di soverchieria.
Nel fertile humus della reazione al potere costituito, le frange di briganti trovarono nuova linfa.
Le bande che già prosperavano nel periodo della restaurazione borbonica, proliferarono dopo l’Unità (1861), alimentate dalle prepotenze dei galantuomini locali e ingrossate dall’evasione carceraria e dalla retinenza alla leva.
I territori della nostra montagna furono percorsi dalle imprese efferate di numerosi briganti.
Ancora dopo l’Unità d’Italia nel 1861 la Calabria si trovava nella stessa difficile situazione, priva di una vera e propria rete viaria, con la ferrovia inesistente e la maggior parte dei comuni, Conflenti compreso, era privo di collegamenti interni.
Per questo motivo, questa forma di accentramento familiare che garantiva esigenze di mutua protezione e cooperazione, durò molto a lungo arrivando fino ad epoca recente, con la popolazione costretta a vivere una quasi primordiale economia di autoconsumo.

Ricerca di terreni da coltivare e “cesine”

La ricerca di nuove terre da coltivare conobbe il suo apice tra il 1860 e il 1908 a causa della crescita della popolazione. In questi anni circa i due terzi della superficie boscata, di cui era ricoperta tutta l’area montana, furono distrutti.
Il crescente bisogno di terre da coltivare, man mano che sulle falde del Reventino proliferavano gli insediamenti, portò alle cosiddette “cesine”(vocabolo diventato tristemente di uso comune), ossia a delle vere e proprie stragi di alberi e  completi annientamenti di macchie boschive.
Il terreno una volta disboscato veniva sottoposto a fuoco, e coltivato per un paio d’anni salvo poi essere abbandonato per disboscare altri pezzi. Ciò portò al progressivo depauperamento forestale con le conseguenze del dilavamento del terreno fertile e dell’inaridimento delle pendici collinari e montane.

Questa polverizzazione della popolazione, in una miriade di villaggi sperduti e isolati sui monti, precluse fin quasi ai nostri giorni a questa parte di cittadini la vita associativa, il senso del vivere insieme, rendendo estremamente difficoltose esigenze primarie come la religione o l’istruzione.
Nei centri rurali più interni e montani, la mancanza di strade e di collegamenti creava grossi problemi di convivenza civile. In alcune contrade, soprattutto nei periodi invernali di neve o straripamento dei torrenti, i figli non potevano andare a scuola e addirittura si dovevano tenere per giorni e giorni in casa i cadaveri prima di poterli portare a spalla in paese per i funerali e la sepoltura.
Questa difficile situazione si mantenne per lungo tempo, e solo la prima ondata migratoria di fine Ottocento diede un po’ di sollievo ad una popolazione che nel frattempo era cresciuta di molto (nelle famiglie c’era una media di quattro-cinque figli).

In epoca remota tutta l’area del vasto comprensorio collinare e montano del Reventino era ricoperta da un fittissimo manto forestale che faceva parte di quella selva ininterrotta che gli storici antichi chiamavano Sylva Bruttia.
Il bosco era ricoperto da querce roverelle, farneti, cerri, ontani e castagni, mentre nella parte alta vegetavano faggi e pini.

L’intera zona è sempre stata molto ricca di acqua “Le acque sono limpide ed assai salutari, come quelle, che dall’alta pendice de’ monti sgorgando, e tra i vivi sassi rotte ed infrante, scorrono graziose in varii bellissimi ruscelli, che poi nel divisato fiume raccolte vanno umili e chete a scaricarsi nel mar Tirreno “ (Montoro- Sacre Memorie).
Difficile stabilire quando l’uomo abbia fatto la sua comparsa in questa area, di certo i primi abitanti “storici” furono transfughi di qualche tribù dei Brezii, antichi abitanti della Sila, a loro volta provenienti dai Balcani (Epiro, Tracia, Anatolia).
Un piccolo villaggio bruzio era certamente in località Costa, ben mimetizzato sul versante occidentale del Reventino, anche se gli abitanti, erano per lo più pastori itineranti.

Molto probabilmente in questa zona si rifugiarono i cittadini di Temesa dopo che la città fu distrutta da Annibale per impedire ai Romani di stabilirvisi o ancora vi giunsero schiavi ribelli dopo la sconfitta di Spartacus, (II sec a.C).

Nel periodo romano questa altura, insieme al vicino Mancuso, fu chiamata “Monte della pece”, perché i folti boschi di conifere fornivano la resina da cui si traeva, con sapiente lavorazione, la preziosa sostanza indispensabile per il calafataggio delle navi che venivano costruite negli arsenali costieri con il legno delle stesse selve. Dai “monti della pece” arrivavano pure le travi utilizzate per costruire le basiliche romane.
È in questo periodo che iniziò ad essere utilizzato il famigerato passo della “cona di San Mazzeo” che, tagliando per la montagna, permetteva di giungere più velocemente dalla via Popilia-Annia alla piana di Sant’Eufemia.
Il tratto della importante via romana scavalcava i monti, dalla stazione “Ad Fluvium Sabatum” (la valle del Savuto), a nord, fino a quella “Ad Turres” (contrada Palazzo nella Piana), a sud.

Da qui la grande importanza storica della Conca di San Mazzeo e di questo passo, pericoloso incrocio di vie tra mari e monti, passaggio di uomini e merci, dove si sono consumati misfatti e leggende.  

Di certo il passo era un luogo che per essere attraversato imponeva il pagamento di “gabelle”, da qui forse il nome di San Mazzeo (da San Matteo il protettore degli esattori) e sicuramente quello della vicina località di Gabella.
Da alcuni documenti storici risulta che ancora intorno all’anno mille, a ulteriore riprova che il posto era conosciuto e trafficato, il valico della Cona di San Mazzeo continuava ad essere un punto di passaggio strategico e Roberto d’Altavilla detto Guiscardo, condottiero normanno, nel 1059, vi sostò per qualche tempo con il suo esercito (I Normanni in finibus Calabriae di Francesco Scuteri).
Sostanzialmente, comunque, fino alla fine del 1400, gli insediamenti sulla parte alta della montagna non furono mai stabili e le popolazioni che man mano vi si erano rifugiate nei momenti di difficoltà, col tempo poi, erano scese a valle.

 La montagna era frequentata per lo più da pastori itineranti e da qualche fuorilegge costretto a nascondersi, e le varie vicende storiche della Calabria, con tutte le dominazioni che man mano vi si erano succedute, poco la avevano riguardata.
Come si può desumere dallo studio delle preziose Platee contenenti i fondi rustici della Mensa Vescovile, i terreni lavorati sulle alture erano quelli di Casara, Guglia, Piano del Jane, Passo del Ceraso, Savocina.
La popolazione lavorava quei fondi ma poi in genere tornava in paese, dove le condizioni per vivere erano migliori.

Negli anni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale la maggiore consapevolezza dei propri diritti unita ad una sempre maggiore volontà di cambiamento, ha portato gli abitanti delle contrade montane anche ad un maggiore coinvolgimento politico. Sono stati eletti nuovi amministratori e anche sindaci provenienti dalle frazioni che hanno messo al centro del loro progetto politico le difficoltà delle contrade montane.
Verso la fine degli anni ’50 venne approntata una lista composta unicamente da abitanti delle frazioni che riuscì addirittura a vincere le elezioni. Sindaci di quella coalizione furono Eugenio Caruso di Sambate e Rosalbino Scuglia di Vallone Cupo (in questa legislatura le frazioni di Petra e Sambate passarono definitivamente a Platania).

Poi nel ‘67 le frazioni riuscirono ad esprimere il primo consigliere provinciale della storia di Conflenti, Pierino Stranges eletto nelle file del Psdi. Pierino ottenne una buona affermazione a Conflenti centro e fu votato quasi all’unanimità nelle frazioni, grazie al suo impegno fu costruita la provinciale che da Martirano va a Lamezia e la strada interna che porta da Cona San Mazzeo a Stranges e Costa.

Mentre a metà degli anni ’80 il PSI vinse le elezioni grazie ai voti ottenuti nelle frazioni montane e per questo furono proclamati sindaci prima Domenico Stranges e poi Vittorio Paola, espressione delle “campagne”. Vittorio a poi continuato a fare politica a Lamezia ricoprendo la carica di assessore ed è stato anche vicepresidente della Provincia di Catanzaro.

Durante il loro mandato, fra le altre cose, fu costruito l’edificio scolastico “Eugenio Isabella” che raggruppò in unico sito le varie classi disseminate sul territorio e fu finalmente migliorata la viabilità da Conflenti centro verso le frazioni.
Più recentemente invece Emilio D’assisi di Lisca è stato eletto dapprima consigliere provinciale e successivamente sindaco.

Tonino Scalzo, per ben due volte primo eletto nel Pd, è diventato il secondo conflentese (dopo Franco Politano) ad entrare nel Consiglio Regionale.
Tonino Scalzo in virtù del suo grandissimo consenso è anche diventato a larghissima maggioranza Presidente del Consiglio Regionale e ha avuto l’onore e il privilegio di essere uno dei 50 Grandi elettori di tutta l’Italia a votare nella elezione del Presidente della Repubblica.

Anche grazie al loro lavoro, oggi la situazione per fortuna è mutata e sono sensibilmente migliorate le condizioni di vita nelle campagne.
La popolazione del comune è quasi equamente divisa tra il centro storico, costituito dai due vecchi casali di Conflenti Sottani e Conflenti Soprani ormai uniti, e i tanti insediamenti delle sue frazioni.
Gli abitanti di quest’ultime si avviano a diventare il grosso della popolazione e già ora rappresentano la parte giovane e più produttiva del comune.
In alcune di esse, negli ultimi tempi, sono avvenute trasformazioni enormi. Finalmente la presenza di servizi come strade, scuole, illuminazione pubblica, cimitero, acqua corrente, negozi di vario tipo, servizio medico, ecc, ha dato impulso ad una vita sociale più intensa e ad uno sviluppo commerciale notevole.
Attività nuove e redditizie, soprattutto agroalimentari, sono sorte e si sono sviluppate in più località. La presenza di migliori collegamenti, soprattutto verso la vicina Lamezia, hanno reso più facili gli spostamenti per lavoro o impegni vari, permettendo ai residenti di non spostarsi con le famiglie e vivere in case ormai comode e spaziose.
Strutture alberghiere e ristoranti di buon livello sono stati costruiti dando avvio a nuove forme di turismo e creando nuove forme di reddito.
Da poco, inoltre, è stata avviata con un discreto successo, l’attività di escursionismo che richiama, di anno in anno, in queste località un numero sempre crescente di visitatori. Conflenti possiede una miriade di sentieri che possono essere sfruttati per piccole o lunghe passeggiate, per migliorare il turismo naturalista ed escursionista, il turismo scolastico e il turismo sociale.  La montagna, a lungo sottovalutata, è tornata al centro dell’attenzione generale e suscita sempre maggiore interesse e progetti di valorizzazione. L’auspicio è che forze giovani riescano a realizzare i loro progetti e che il paese ritrovi vitalità.