Il terremoto del 1905 aveva colpito gravemente Martirano producendo lutti e rovine, tanto che era stata annunciata una visita del Re sui luoghi del disastro.
Tutti i collegamenti per Martirano erano però interrotti, così, egli arrivò con un’autovettura fino a Conflenti, per poi proseguire da là verso i luoghi colpiti dal tragico evento.

A Santa Maria, in piazza vicino al Santuario, si radunò una folla di curiosi per vederlo col suo seguito. Il Re fece una piccola sosta e gli vennero offerti in dono molti prodotti locali, il monarca apprezzò in modo particolare il pane di farina di castagna che definì “pane dolce al sapore di miele”.
Intanto in fretta, era stata bonificata alla meno peggio la strada di collegamento da Scagliuni per consentire il passaggio verso Martirano.
Il proseguimento era possibile però solo a dorso di asino e per il Re erano stati impegnati una mula, una bella sella e Cicciu, il palafreniere. Tutto messo a disposizione da Don Rodolfo Isabella, notabile dell’epoca, che poi conservò per lungo tempo la sella.

Cicciu conduceva la cavalcatura per la cavezza e, consapevole dell’incarico ricevuto, stava accorto ad evitare all’angusto personaggio ogni difficoltà. Da un po’ di tempo però vedeva che questi, quando il sentiero diventava più ripido, allargava le gambe e spingeva coi piedi nelle staffe, come se cavalcasse un cavallo. Allora gli sovvenne che la mula era ombrosa e che se avesse avuto qualche scatto avrebbe disarcionato il trasportato con ogni intuibile conseguenza. Decise perciò di informarlo immediatamente: O Rre, strinci ‘e cosce c’a mula è vizzarra e te jetta (Re, stringi le gambe perché la mula è ombrosa e ti disarciona) e quello, sentendosi interpellato, senza capire il senso delle parole rispose: “Ma cosa dice brav’uomo, cosa dice?”.


Anche Cicciu non aveva capito che il Re non avesse capito. D’altra parte, come poteva pensare che il Re non avesse inteso quando lui era stato così chiaro? Allora lasciò correre per non importunare.
A breve, però, una certa tensione trasmessagli dalla cavezza lo portò a rinnovare l’invito: O Re, taiu dittu mu strinci e cosce ca a mula è vizzarra e te jetta.
L’interpellato ancora non volle capire e rispose col suo: ”Ma cosa dice brav’uomo, cosa dice mai?”, e continuò ad allargare le gambe e a spingere nelle staffe, al che spontaneo ed immediato il commento del premuroso palafreniere: Tu tinne futti? E futtatinne, ca si cadi ta squatri tu ‘a crozza (Tu te ne infischi? Ed infischiatene, tanto se cadi la testa te la rompi tu”).
E qui si chiuse il conversare tra il sovrano e suddito.

Di Francesco Stranges

Fino agli anni ‘80, nei giorni precedenti il 20 settembre, il sagrato del Santuario e spesso pure la chiesa, erano teatro del passaggio e della sosta di ogni sorta di animale diretto alla fiera di Decollatura.
Mucche, buoi, cavalli, muli, capre e asini, insieme ai loro padroni salivano da scagliuni, provenienti da Martirano e da tutto il comprensorio del Savuto. La salita era dura e la sosta, approfittando della fontana della piazza, quasi obbligatoria.
Ma, soprattutto nel passato, la sosta non si faceva solo per rifocillare gli animali.
Animati da un fervido sentimento religioso, i proprietari degli animali, li portavano in chiesa, ai piedi della statua della Madonna, per una santa benedizione fai da te.
Il grande sentimento che lega la gente del circondario alla nostra Madonna, sfociava anche in manifestazioni molto strane, quasi pagane, come questa, che avveniva nei giorni della fiera della cucuzza di Decollatura e, a dire il vero, anche in altre occasioni.


La benedizione avveniva con un rituale molto particolare: si realizzavano delle collane a cui venivano attaccati dei soldi che si mettevano al collo degli animali, che con questi doni entravano in chiesa.
Alla fine della benedizione, le offerte rimanevano alla Madonna e, con molta più fiducia, si continuava il cammino verso la meta.
Per i ragazzi, assidui frequentatori di quello che era il loro unico campo di gioco (il sagrato), questi giorni erano vissuti come un vero dramma.
Gli animali, durante la sosta, e approfittando della relativa tranquillità, defecavano e lasciavano tracce molto evidenti del loro passaggio.
E se la pioggia non arrivava a salvarli, i poveri ragazzi erano costretti ad arrangiarsi e a ripulire in tutta fretta il loro campo di gioco.
Purtroppo per loro, però, passavano pochi giorni e il problema si riproponeva in modo ancora più rilevante in quanto, in tanti, alla fiera andavano solo per comprare, e alla fine della stessa, ritornavano a casa coi nuovi acquisti per cui, inevitabilmente, toccava ripulire di nuovo.

Oggi, come un tempo, la messa di domenica mattina è un appuntamento da non perdere per credenti e non credenti. È un’occasione per ritrovarsi e raccontare gli avvenimenti della settimana e, spesso, la preghiera diventa un fatto puramente marginale.
Un tempo c’era un rituale ben preciso, studiato nei minimi dettagli.
I primi ad arrivare erano gli uomini anziani. Alle otto in punto erano quasi tutti sul sagrato. Si formavano piccoli gruppi rigorosamente divisi per differenze economiche e sociali. Tra loro non c’era quasi mai comunicazione. Nel rispetto delle regole della tradizione, le donne giungevano più tardi. Un ritardo voluto perché si aspettava che la platea fosse al gran completo. Sapevano di essere osservate e procedevano senza fretta, con movimenti lenti e ben studiati. Quel momento, tanto atteso da una settimana, era da consumare lentamente e tutto da sfruttare, soprattutto per chi era ancora da sposare. Da uno sguardo furtivo e ricambiato poteva venir fuori il grande amore e soprattutto un matrimonio.
Le messe erano due. La prima all’alba o quasi. La chiamavano letta e durava poco. Era la messa per chi aveva altre occupazioni durante la giornata o di chi aveva un solo vestito per tutte le stagioni.


La messa solenne, invece, cominciava alle dieci. Era la messa dei giovani e dei benestanti del paese. Era preannunciata da un lungo scampanio; era cantata e durava più di un’ora. Per uomini e donne era l’occasione buona per ammirare ed essere ammirati. Anche in chiesa c’era una tradizione da rispettare: si stava rigorosamente separati per età, sesso e condizione sociale. I signori avevano posti riservati. Le donne tutte sedute nelle prime file, gli uomini tutti indietro e in piedi. Le ultime file di banchi erano riservate agli uomini anziani.
Ogni contatto era da evitare, pertanto la comunione veniva data prima alle donne e poi agli uomini. La messa era in latino. Parlare e pregare era una cosa normale, ci si scambiava le ultime notizie. L’uscita dalla messa era una nuova occasione da sfruttare, l’ultima della settimana. Altri sguardi e sorrisi alla ricerca di conferme. Si rallentava il passo per allungare il tempo del ritorno mentre l’occhio vagava alla ricerca di uno sguardo o di una persona. Un ricordo da serbare fino alla domenica seguente.

di A. Coltellaro

Nessuno pensa che tra Conflenti e Diego Armando Maradona, il più forte calciatore di tutti i tempi, possa esserci un legame, eppure c’è, ed è molto forte.
Già intorno agli anni ’70, alcuni nostri compaesani emigrati in Argentina, che vivevano a Lanus e avevano avuto il privilegio di conoscere nel barrio poverissimo di villa Fiorito il fuoriclasse argentino fin da piccolo, tornati a Conflenti ne avevano raccontato le gesta quando ancora nessuno in Italia lo conosceva.
Addirittura, si racconta di tal R. Orlando, un giovane figlio di emigrati conflentesi che faceva parte delle famose “cebollitas”, la squadra giovanile in cui giocava Maradona che aveva incantato e fatto innamorare tutta Buenos Aires per le incredibili gesta di quei ragazzini invincibili.

Ma il legame non si ferma qui.

Casa Ferlaino, che ha dato i natali al famoso giudice Francesco Ferlaino, nostro illustre compaesano caduto sotto i colpi della mafia dopo aver condotto una grande battaglia contro di essa, è stata anche la casa di Modesto Ferlaino, fratello del giudice e papà di Corrado Ferlaino.
Si, proprio Corrado Ferlaino, il famoso presidente del Napoli, diventato popolarissimo nel mondo, per aver avuto il merito e la capacità di portare in Italia il fuoriclasse argentino, senza ombra di dubbio il calciatore più forte di tutti i tempi.
E in realtà, anche Corrado Ferlaino, fin da piccolo, è stato un assiduo frequentatore di quella casa e di Santa Maria dove, come tutti i bambini di questo rione, si divertiva a giocare a calcio sul sagrato del Santuario.
Da buon conflentese, poi, e fino a quando ha potuto, ha sempre visitato Conflenti e reso onore alla Madonna nei giorni della festa.
Addirittura, durante una delle sue ultime apparizioni a Conflenti, ha manifestato il suo supporto alla locale squadra di calcio divenendone presidente onorario.
Per questo motivo, ai tanti italiani che hanno avuto la fortuna di ammirare le incredibili gesta di Maradona, vogliamo ricordare – e lo rivendichiamo con orgoglio – che ciò è avvenuto per merito di un figlio di Conflenti.

Santa Maria col suo Santuario è il primo luogo che trovi arrivando a Conflenti.
Fin dai primi del Seicento, la fama della Madonna di Visora e la bellezza del suo Santuario erano noti in quasi tutta la Calabria.

Eppure, ancora fino all’immediato dopoguerra, se si esclude la cantina del vino di Peppe a Marca, a Santa Maria non c’erano attività commerciali. Solo nel periodo della fiera, il bar di Rinuccio approntava lì un suo punto vendita e qualche altro volenteroso “attrezzava” le ormai famose locande con lo spezzatino. A colmare questo vuoto ci pensò Ciccu e chiareddra che inaugurò il Bar Calabria (oggi Bar Visora) e soprattutto la famosa trattoria nella piazza antistante al bellissimo colonnato.

La trattoria divenne ben presto un punto di incontro e ristoro per tutta la comunità e fu dotata del primo televisore di Conflenti, anche se riuscire a entrare per guardare eventi importanti: partite, incontri di boxe o altro era un privilegio non concesso a tutti.

I banchetti della trattoria Calabria restano ancora oggi un piacevole ricordo di molti anziani che festeggiarono là il loro matrimonio o le feste più importanti.
Ma anche il Bar, ben presto, anche per la posizione strategica, visto che da Santa Maria partiva il postalino che rappresentava l’unico collegamento col mondo esterno, divenne un luogo molto frequentato.
Il resto lo fece la geniale intuizione dei suoi proprietari, che puntarono sul gelato come prodotto principale (per fortuna la tradizione continua anche ai giorni nostri). 

Oltre alla vendita al bar, direttamente dai famosi “pozzetti”, fu approntato un originale carretto, con un banco gelato, che girava per il paese a vendere degli squisiti gelati preparati col ghiaccio, accuratamente raccolto e conservato dai maestri nivari.

I nivari

Un tempo la neve cadeva abbondante sul nostro territorio; ne scendevano giù centimetri e centimetri, in particolare sul Reventino. Così, una famiglia del luogo riprese un’intuizione già diffusa in molte parti d’Italia facendone un’occasione di lavoro: conservare la neve per poi riutilizzarla nei mesi estivi. Un tempo non c’erano frigoriferi quindi bisognava trovare qualche soluzione per tenere al fresco cibo e bevande. Nacque in questo modo anche da noi questo mestiere diffuso in molti altri posti. Quando le precipitazioni nevose terminavano, i nivari (curiosamente il soprannome delle famiglie che ebbero questa idea è arrivato fino ai nostri giorni) salivano sul monte Reventino. Lì sceglievano un posto adeguato, poco esposto e scavavano una grande buca qualche metro sotto terra, quindi la riempivano con la neve opportunamente pressata per poi ricoprire tutto, spesso anche con paglia, che difendeva dai raggi solari. Venivano a crearsi, così, delle vere e proprie ghiacciaie o neviere. La neve conservata allo stato solido si trasformava pian piano in ghiaccio.

Con l’arrivo della bella stagione si risaliva la montagna, si riscopriva la fossa e si tirava fuori la neve ormai ghiacciata. Il ghiaccio veniva portato al paese in blocchi, utilizzando a volte sacchi di iuta. Il trasporto veniva commissionato a chiunque possedesse asini o muli.
Il ghiaccio in genere si adoperava per due scopi principali. Le famiglie, principalmente le nobili, lo acquistavano e lo conservavano in posti riparati e lo adoperavano per tenere al fresco le bibite e i cibi. Mentre i bar ne acquistavano grandi quantità, in particolare nel periodo della festa della Madonna, per vendere ai numerosi pellegrini delle bevande fresche e soprattutto per fare gustosissime granite. Si metteva il ghiaccio in un grande contenitore nel quale si versava succo di limone e zucchero. E poi si mescolava a lungo, fino a che la miscela non si ammorbidiva e diventava granita. Ottima, rinfrescante e genuina.

Le edicole votive o cappelle campestri, più note come cone, sono una testimonianza importante della tradizionale cultura religiosa del nostro paese. 

In generale la loro origine si può far risalire ai tempietti o edicole che i pagani dedicavano ai Lares. Gli antichi romani le ponevano all’interno delle domus per ospitare le anime degli antenati trasformati appunto in Lari, divinità tutelari della casa e della famiglia, mentre per i Lares compilates (che presiedevano bivi e quadrivi) le costruivano al limite delle proprietà e nei crocicchi. 

Nella tradizione locale, la loro realizzazione è dovuta a un committente, spesso anche costruttore, che dedicava a un Santo la propria edicola come ex voto per una grazia attesa o ricevuta, oppure per devozione o per un evento particolare verificatosi nel luogo. Col passare del tempo, indebolendosi la memoria collegata all’offerente, l’edicola ha superato il limes del dono individuale e ha assunto il valore della devozione comune. 

Essendo sorte in autonomia dai canoni della chiesa che veniva coinvolta solo per la benedizione, queste esigue cappelle vengono percepite come espressione devozionale spontanea.

A Conflenti, la tradizione delle cone votive è molto radicata. Le più famose e antiche in ordine temporale risalgono alla fine del ‘500 quando, in località Serra Campanara e Cona degli Augurelli, furono costruite per ricordare le apparizioni della Madonna. 

La loro presenza si è poi diffusa nelle frazioni agricole in corrispondenza al fenomeno stanziale degli insediamenti e si è intensificata nel corso dell’Ottocento e nel secolo scorso, quando la popolazione era di gran lunga superiore a quella attuale e i terreni erano quasi tutti coltivati.

In genere, i materiali edilizi sono poveri, le strutture iconografiche semplici e riconducibili a due tipologie: ad una sola nicchia concava interna, protetta da grata, con un dipinto o una statua, oppure a quattro nicchie esterne poco profonde con altrettanti dipinti. L’altezza supera appena i due metri; la base è quadrata o rettangolare; i dipinti rappresentano Santi.

Nei paesi del comprensorio queste edicole, poste perlopiù all’interno dell’abitato, richiamano i passanti ad una breve sosta dello spirito, fungendo da promemoria della fede o come richiamo di determinati eventi. Quelle di Conflenti sono state costruite esclusivamente fuori dall’abitato.

Evidente è il ruolo di tutelare campi e prodotti agricoli dalle calamità e i viandanti dagli incidenti di ogni genere, nel viaggio di andata e ritorno dalle campagne. 

Oltre che per i passanti giornalieri, le piccole cappelle erano importanti per la popolazione stabile nei plessi agresti, assicurando, in mancanza di chiese extra moenia, la presenza di un luogo di culto presso cui esprimere la loro fede con semplici gesti di devozione, e da cui trarre protezione. 

Le immagini dei santi che vi sono dipinti, per i credenti, specialmente per quelli del passato, non sono una mera rappresentazione ma vengono intesi come presenza reale hinc et nunc, qui ed ora, perciò chi ha fede ne ricava un sentimento di sicurezza e di sostegno concreto. 

Il senso delle cone conflentesi extra moenia è collegato inoltre al carattere di cintura protettiva, che è addetta ad allontanare dall’abitato le creature cupe della notte e a tutelare il paese dall’infiltrazione delle forze demoniache reprimendo gli spettri che sono in agguato nei luoghi non urbanizzati.

Queste piccole cappelle, con la derivazione degli schemi architettonici dalle edicole dei Lari e con i loro significati reconditi, rappresentano un nesso di continuità culturale collegando il presente al passato, la fede attuale a quella del mondo antico che nella figura di Ecate ebbe la divinità protettrice dei crocicchi oltre che la maga occulta del male. La copertura assistenziale effettuata da questa rete ausiliare ai limiti del borgo completa l’azione dei Santi, che portati annualmente in processione, purificano gli spazi tra le case. 

Sul piano devozionale le cone di Conflenti sono suddivisibili in cone di Maria e cone dei Santi.

Le cone di Maria. Sono le prime edicole in ordine di tempo, dedicate alla Vergine nel secolo delle apparizioni in località Serra Campanara (vedi art. “Le cone mariane di Serra Campanara” )

 

Le cone dei Santi. Le cone dei Santi, posteriori a quelle mariane, sono sparse nel territorio agreste fuori paese.

In origine erano quasi tutte di proprietà privata, posizionate in prossimità degli incroci dei vecchi sentieri interpoderali. Con il passare del tempo, anche a causa dell’abbandono delle campagne, molte di esse sono state lasciate al degrado. Ultimamente, grazie all’amore per questo territorio e alla sua determinazione, la signora Annarita Contato ha avviato un’opera di recupero che le ha riportate al loro antico splendore.

Il loro ripristino è stato accolto con molto favore dalla popolazione, e l’associazione sportiva Conflenti trekking le ha inserite in un percorso finalizzato alla loro conoscenza.

Liberamente tratto dall’articolo di Vittoria Butera

Il proverbio è una sentenza breve, incisiva, alcune volte rimata o espressa per metafora, che ha per lo più uno scopo morale e condensa un insegnamento tratto dall’esperienza.
Lo spirito che è presente dietro i proverbi conflentesi, e ovviamente anche calabresi, ne rispecchia l’indole che è quella di essere ironici e schietti senza essere offensivi.
I proverbi sono la sintesi della sapienza dei popoli, hanno sempre profonde radici popolari e offrono uno
spaccato della società e della cultura da cui provengono.
Più di ogni altra cosa ci permettono di far risorgere il mondo degli antichi e di scoprirne abitudini di vita, usi, costumi, idee, paure, ossessioni, odi e amori.
La loro funzione è stata fondamentale nella storia della nostra regione, perché, in un popolo poco acculturato, sostituendo i libri scritti, hanno tramandato, da una generazione all’altra, notizie e insegnamenti di gran valore sul nostro modo di vivere.
Vediamone alcuni che fanno direttamente riferimento alla cultura contadina e che quindi utilizzano metafore che rimandano al comportamento degli animali o alla natura. Da esse si evince il forte legame dell’uomo con la terra, l’ambiente naturale e gli animali, uniche risorse di quella società.

  • U cane muzica sempre aru sciancatu (Il cane morde sempre il pezzente- In ogni situazione ci rimette sempre il più debole
  • U ciucciu chi ‘un fa ra cuda ari tri anni,’un ra fa cchiù (L’asino che non fa la coda dopo tre anni, non la fa più).  Se non si riesce a fare qualcosa dopo un certo tempo, non si riesce più.
  • A gatta presciarola fa i gattariaddri cicati (La gatta che ha fretta fa i figli ciechi). Le cose fatte in fretta spesso non riescono bene.
  • Quannu a vurpe un junce all’uva, dice ca è amara (Quando la volpe non riesce a prendere l’uva dice che è amara). Quando qualcuno non riesce a fare qualcosa, trova sempre una giustificazione.
  • Chine piacura se fa, u lupu s’u mangia (Chi si fa pecora, il lupo lo mangia). Chi è mite e paziente subisce torti e soprusi.
  • Un futtuliare u cane ca dorme! (Non stuzzicare can che dorme).  Potrebbe morderti.
  • E cirase se coglianu viscannu! (Le ciliegie si raccolgono fischiando). Per non mangiarle.
  • L’aggiaddru intra a caggia, un canta ppe amuri, ma ppe raggia! (L’uccello in gabbia non canta per amore ma per rabbia). Non tutti quelli che cantano sono felici.
  • Quannu chiova, mpesate e va, ca quannu scampa te truavi ddra! (Quando piove preparati e vai, che quando smetterà ti troverai là). Anticipa gli eventi, avrai un vantaggio.
  • Megliu nu ciucciu vivu ca nu miadicu muartu (Meglio un asino vivo che un medico morto).  Meglio una cosa di poco valore ma utilizzabile, che una di valore ma inservibile.
  • Chine un tene puarcu e uartu, è muartu (Chi non ha maiale e orto è morto). Una volta terra da coltivare e carne da mangiare erano fondamentali, senza di essi si rischiava la fame.
  • Acqua passata un macina mulinu (L’acqua che è passata, non fa girare il mulino). Le occasioni bisogna coglierle al momento opportuno.
  • Quannu u gattu se lava o chiove o jazza (Se il gatto si lava, piove o nevica). È un segnale di cambiamenti atmosferici.
  • Chine va aru mulinu, se ‘mparina (Chi va al mulino, si riempie di farina). Le esperienze lasciano sempre traccia.
  • U lupu cangia ru pilu, ma no ru viziu (Il lupo può cambiare pelo ma non il vizio). Occhio a chi fa finta di cambiare!
  • Puru i pulici tenanu a tusse (Pure le pulci tossiscono). Anche gli individui più insignificanti devono dire la loro
  • A gaddrina fa ll’ova e aru gaddru le vruscia u culu (La gallina fa le uova e al gallo brucia il culo). Quando qualcuno si fa il bello del lavoro degli altri e si lamenta pure.
  • Quannu a gatta un c’è, i surici abbaddranu (Quando la gatta manca, i topi ballano).  Nell’assenza di qualcuno che controlla, gli altri ne approfittano per concedersi tutte le libertà.
  • Attacca u ciucciu dduve u patrune vo (Lega l’asino dove vuole il padrone).  Asseconda il tuo datore di lavoro, senza pensarci troppo, di sicuro non potrà farti problemi.
  • A d’abbivirare carduni se perda sulu tiampu (A innaffiare i cardi si perde tempo). Non perdere tempo a fare cose inutili.
  • A gaddrina ca camina se ricoglia ccu ra vozza chjna (La gallina che va in giro torna sempre col gozzo pieno). Chi si impegna, qualcosa conclude.
  • A gaddrina va spinnata dopu morta (La gallina va spennata dopo morta). Ogni cosa a suo tempo. Non contare su una eredità prima di averla.
  • A gatta d’a dispensa cussì cum’è, penza (La gatta della dispensa com’è, pensa). Si dice quando uno giudica gli altri dalle sue idee e dal suo comportamento.
  • A lavare a capu aru ciucciu se perda tiampu e sapune (Se si lava la testa all’asino, si perde tempo e sapone). È lavoro inutile, voler istruire la gente stupida.
  • A malaerva (o gramigna) un mora mai (L’erba cattiva non va mai via). La gente cattiva è come l’erba infestante, si trova sempre.
  • A nive ‘e marzu dura quantu a fimmina in palazzu (La neve di marzo dura quanto una donna (serva) in un palazzo). Dura poco.
  • A nive porta pane e l’acqua porta fame. (La neve porta pane e l’acqua porta fame). La neve è utile, l’acqua dannosa.
  • A petra ca ‘un fa lippu, u jume s’a ‘mpesa. (La pietra che non fa muschio il fiume la porta via). Se qualcuno non si adatta all’ambiente prima o poi va via.
  • Cane c’abbaia, un muzica. (Cane che abbaia non morde). Non temere chi minaccia sempre.
  • Chiddru ca ‘un vue, a l’uartu te nasce. (Nell’orto spunta ciò che non vuoi). Spesso accade ciò che non vorresti.
  • Chine simina spine, un po jire scauzu. (Chi semina spine non può andare scalzo). Chi fa del male deve stare attento alle conseguenze.
  • Cucinala cumu vue, ma sempre cucuzza è! (Cucinala come vuoi sempre zucca è!)  Ti puoi sforzare quanto vuoi ma se la materia prima è di scarsa qualità, anche il risultato non è buono.
  • Dare cumpiatti ari puarci è tiampu piarsu. (Dare confetti ai porci è tempo sprecato). Fare qualcosa per chi non apprezza è tempo perso.
  • Jennaru siccu, massaru riccu! (Gennaio secco, contadino ricco). Segno di buon raccolto.
  • L’acqua e giugnu, rovina u munnu! (L’acqua di giugno rovina il mondo). Segno di cattivo raccolto.
  • Si l’acqua fossa bona un (se pirdessa) jessa u jime appinninu. (Se l’acqua fosse preziosa non  scorrerebbe giù nei fiumi). In questo caso intesa come bevanda.
  • U lignu stuartu u fuacu l’addirizza. (Il legno storto lo raddrizza il fuoco). In certe situazioni solo i metodi forti possono ristabilire l’ordine.
  • A mala cumpagnia te porta a ra mala via. (La cattiva compagnia ti porta nella cattiva via).
  • L’uaminu gilusu, mora curnutu. (L’uomo geloso, muore cornuto).
  • Chine se marita è cuntiantu ppe nu juarnu, chine ammazza ru puarcu resta cuntiantu ppe tuttu l’annu. (Chi si sposa è contento per un giorno, chi uccide il maiale lo è per tutto l’anno. Si sottolinea l’utilità del maiale che sfama per un anno intero).
  • E dduve nescia s’asca, de ssa nuce masca! (Il ramo che viene fuori da un albero è come l’albero. I figli sono come i genitori).
  • Megliu nu surice mmianzu a dui gatti, ca nu malatu mmianzu a dui miadici. (Meglio un topo tra due gatti che un malato tra due medici).  Sfortunato il paziente sotto le cure di due medici.
  • Ogne savurreddra aza na turriceddra! (Ogni pietruzza serve per elevare una torre). I grandi obbiettivi si raggiungono con tanti piccoli sacrifici.

Questi proverbi, invece, fanno riferimento alla saggezza popolare di una società povera, con poche possibilità di migliorare la propria condizione e in cui le precarie condizioni di vita ponevano come problema principale quello della sussistenza. Per poter sopravvivere bisognava lavorare duramente, essere “svegli” (fino alla diffidenza) e sfruttare tutte le occasioni.

  • A pratica vincia ara grammatica. (La pratica vince la grammatica). L’esperienza conta più dello studio.
  • Chine bellu vo parire, gran dulure ha dde patire. (Chi bello vuole apparire gran dolore deve patire).  Senza soffrire non è possibile raggiungere grandi obbiettivi.
  • Chine de speranza campa, affrittu more. (Chi di speranza vive, disperato muore).
  • Chi tardu arriva malu alloggia. (Chi tardi arriva male alloggia). Bisogna essere solerti.
  • Mpara l’arte e mintala de parte. (Impara l’arte e mettila da parte). Saper fare qualcosa è sempre utile.
  • Chine tene arte, tene parte. (Chi ha arte, ha parte). Nella società conta chi ha un mestiere.
  • Guardate du riccu mpoveritu e du povaru arricchisciutu. (Guardati dal ricco impoverito e dal povero che si è arricchito). Fai attenzione a chi cambia condizione, non sa adattarsi alle nuove situazioni.
  • A tavola misa, chine un mangia, perda ra spisa. (Quando la tavola è imbandita, chi non mangia perde la spesa). Se sei invitato e non mangi, hai solo da perderci.
  • Paga caru, ca sta mparu. (Le cose che costano di più, hanno maggiore qualità).
  • L’abbuttu un crida aru dijunu. (Il sazio non crede a chi ha fame). Chi non vive una situazione non può comprenderla.
  • I guai da pignata i ssa a cucchjara ca rimina. (I guai della pignatta li sa solo il mestolo che ci gira). I problemi di una famiglia li sanno solo i suoi componenti.
  • Dduve c’è gustu un c’è perdenza. (Dove c’è gusto non c’è perdenza). Niente può ostacolarci quando facciamo qualcosa che ci piace
  • Fa bene e scordate fa male e pensace. (Fai bene e dimentica, fai male e pensaci). Far bene dovrebbe essere una cosa naturale, senza pensare ai vantaggi; mentre bisogna ricordarsi sempre del male che si è fatto.
  • U patreternu manna viscuatti a chine un tene dianti. (Il Padreterno manda biscotti a chi non ha denti). Spesso le opportunità capitano a chi non sa o non può sfruttarle.
  • A ra cacareddra un ce pò culu stringere. (Con la diarrea è inutile stringere il culo). Ci sono delle situazioni in cui devi, purtroppo, cedere.
  • Chine tene sordi fa sordi; chine tene piducchi fa piducchi. (Chi ha soldi fa soldi, chi ha pidocchi fa pidocchi). In una società chiusa, come quella contadina, non c’era possibilità di migliorare la propria condizione. Quindi il ricco rimaneva sempre ricco e viceversa il povero sempre povero.
  • Quannu u culu ventija, u miadicu passija. (Quando si scorreggia, il medico passeggia). Se si scorreggia vuol dire che si sta bene.
  • Cazzu ammanicatu un guarda parintatu. (Pene indurito non si preoccupa delle parentele). L’attrazione sessuale prevale sul buon senso.
  • Panza chjina canta, no cammisa janca. (Pancia piena canta, non camicia bianca). Ci sono delle priorità, prima mangiare e poi apparire belli.
  • Senza sordi un se cantanu misse. (Senza soldi non si cantano messe). Senza soldi non si fa nulla, neanche la messa ti cantano in chiesa.
  • Po’ cchiù nu pilu all’iartu ca nu sciartu  aru pinninu. (Tira di più un pelo in salita, che una fune in discesa). L’attrazione sessuale ha un potere smisurato.
  • Va ccu ri megliu e tie e facce a spisa. (Va con chi è meglio di te e fagli la spesa). Frequenta chi è migliore di te e, se puoi, impara da loro anche a costo di pagare per poterlo fare.
  • Chine pocu tena, caru u tena. (Chi ha poco, lo tiene caro, con cura).  
  • Aru paise di cicati beatu chine tena n’uacchiu. (Nel paese dei ciechi beato chi ha un occhio).  Uno che sa poco in mezzo agli ignoranti sembra un saputo. In ogni situazione sta meglio chi possiede di più.
  • Mazze e paneddre fanu e figlie belle, Paneddre senza mazze fanu e figlie pazze. (Botte e dolci fanno le figlie belle, dolci senza botte fanno le figlie pazze). Bisogna essere dolci e severi nell’educare i figli
  •  Ppe ra ciotia un ci nna’ medicina. (Per la stupidità non esiste medicina). Non c’è rimedio.
  • Chine è natu quatratu, un po’ morire tunnu. (Chi nasce quadrato non può morire tondo. Chi nasce in un modo non può morire in un altro). Il carattere resta sempre lo stesso.
  • Megliu suli ca male accumpagnati. (Meglio soli che male accompagnati).
  • Uacchiu ca ‘un vide, core ca ‘un dola. (Occhio che non vede, cuore che non duole). Se alcune cose non si sanno si evita di soffrire.
  • A ragiune è di fissi. (La ragione è dei fessi). Si dice quando s’insiste troppo per aver ragione, per partito preso; senza cercare di capire le motivazioni dell’altro.
  • A meglia società è dispara e inferiore a unu. (La migliore società è dispari e inferiore a uno). Il consiglio è non fare società.
  •  A fatiga se chiama fata e a mie me feta. (Il lavoro si chiama fata e a me puzza). Lo dice chi non ama il lavoro.
  • A lingua vatta sempre dduve u dente dola. (La lingua batte dove il dente duole). Il pensiero va sempre a ciò che ci fa soffrire o ci preoccupa.
  • A matinata fa ra bona jurnata. (La mattinata fa buona la giornata). Fare bene di mattina significa fare il più della giornata.
  • Ara squagliata da nive, se vidanu i strunzi. (Quando si scioglie la neve viene fuori la cacca degli animali). Alla fine i difetti vengono fuori.
  • A razza, tira capizza. (La buona razza porta sempre sulla buona strada).
  • A ru paise d’a cuccagna chine menu fatiga cchiu magna. (Nel paese dei balocchi chi meno lavora di più mangia). Se vuoi mangiare ti tocca lavorare. Frase ironica.
  • U suviarchiu rumpa ru cuvierchiu. (Il soverchio rompe il coperchio). Il troppo stroppia.
  • A scusa de pirita sunu e surache. (La scusa delle scorregge sono i fagioli). Per ogni cosa c’è una scusa.
  • A d’ura ca u miadicu studia, u malatu sinnè jutu. (Nel frattempo che il medico studia, il paziente muore). Se non si agisce in modo celere, i rimedi risultano inutili.
  • A furia de futtire se resta futtuti. (A furia di fregare si resta fregati).
  • All’arrizzicu sta ru guadagnu. (Per guadagnare, bisogna rischiare). Se non si rischia non si raggiungono gli obbiettivi.
  • Aru penninu, ogne santu aiuta! (In discesa, ogni santo aiuta). A fare le cose facili ti aiutano tutti
  • Ccu ra vucca case e palazzi, ccu  ri fatti. capu de cazzi! (A parole case e palazzi, coi fatti nulla). C’è chi promette mari e monti e poi non mantiene le parole.
  • Chine fatiga mangia, chine un fatiga, mangia, viva e dorma. (Chi lavora mangia, chi non lavora, mangia, beve e dorme). Il lavoro ti garantisce il cibo, la ricchezza, tutto.
  • Chine parra assai, caca viantu! (Chi parla tanta, defeca aria). Chi si vanta tanto, non combina nulla.
  • Chine te vo bene te fa chjangire, chine te vo male te fa ridire! (Chi ti vuole bene ti fa piangere, chi ti vuole male ti fa ridere). Chi ti vuole bene ti dice la verità, anche se scomoda e non ciò che ti fa piacere.
  • Chine tena a casa larga, raga spine. (Chi ha una casa grande, ha tante spine). Una casa grande comporta responsabilità e problemi.
  • Ad ogni casa c’è na cruce. (In ogni casa c’è una croce).  Non esiste casa senza problemi.
  • I panni luardi se lavanu ara casa. (I panni sporchi si lavano in famiglia).  Gli affari di casa si risolvono in famiglia e non si raccontano in giro.
  • A ra casa du latru, un s’arrubba. (In casa del ladro non si ruba). È difficile imbrogliare una persona più esperta di noi.
  • Chine vo fricare u vicinu, se curca priastu e se leva ru matinu. Chi vuole fregare il vicino deve coricarsi subito e svegliarsi presto. Deve trovare i momenti buoni.
  • Chine vo ncripare u nimicu u fa parrare e se sta citu! (Chi vuole innervosire il nemico lo fa parlare e sta zitto). Chi vuole innervosire il nemico non risponde alle provocazioni.
  • Chine campa de mmidia mora de raggia. (Chi vive invidiando, muore arrabbiato).
  • Chine ccu priscari se misca, ccu pulici se leva. (Chi a che fare con bambini si ritrova pieno di pulci). Chi pratica gente immatura prima o poi avrà problemi.
  • Cchine lassa ra via vecchia ppe ra nova, trivuli lassa e malanove trova. (Chi lascia la via vecchia per la nuova, trova sempre nuovi problemi).
  • Chine mangia sulu affucatu mora! (Chi mangia da solo, muore affogato). Gli ingordi rischiano di soffocare.
  • Chine sta ccu ru zuappu se mpara a zuappicare. (Chi va con lo zoppo impara a zoppicare).
  • Chine tena faccia, abbusca mugliere. (Chi ci mette la faccia, trova moglie). Senza provarci non si ottiene nulla.
  • Chi vo va, chine un vo manna. (Chi vuole va, chi non vuole manda). Se vuoi una cosa, falla personalmente.
  • Cchiù scuru da menzannotte un po vinire. (Più buio della mezzanotte non può fare).  A tutto c’è una fine.
  • Cose e notte, vrigogna e juarnu. (Cose di notte, vergogna di giorno).  Le cose fatte di notte, hanno sempre qualcosa di cui vergognarsi.
  • Ccu l’amicu u pattu, ccu ru parente u cuntrattu. (Con l’amico un patto, col parente il contratto). Fidati più di un amico che di un parente.
  • È megliu na vota arrussicare, ca ciantu ngialinire! (Meglio una volta arrossire che cento impallidire). Meglio reagire subito ad un torto, che covare nel cuore risentimento. Se hai fatto qualcosa di male, confessalo subito.
  • I cunti se fanu ara ricota da fera! (I conti si fanno quando si ritorna dalla fiera). Alla fine.
  • E jestigne coglianu e ru gabbu mmisca! (Le bestemmie colpiscono; la derisione si trasmette).
  • Si a mmidia fossa guaddrara, tutti l’avessanu. (Se l’invidia fosse ernia, tutti ne soffrirebbero).
  • A zirra d’a sira, stipala ara matina. (L’ira della sera conservala fino al mattino). Meglio non agire sotto l’effetto dell’ira.
  • Visita rara, tenela cara. (La visita rara tienila cara). Tieni in buon conto chi cerca di non importunare sempre.
  • U pocu vasta e l’assai suverchia. (Il poco basta, il troppo avanza). La moderazione nelle cose è importante.
  • U sule a chine vide, scarfa. (Il sole riscalda chi vede).  Se vuoi cogliere una opportunità devi essere al posto giusto, al momento giusto.
  • Pane e mantu un grava tantu! (Pane e mantello non pesano tanto). Quando viaggi porta con te da mangiare e indumenti; sono sempre utili.
  • Sa cchiù u pazzu a casa sua, ca u saviu a casa e l’atri! (Ognuno sa i problemi della propria casa).
  • Se dice ru piccatu e mai u peccature! (Si dice il peccato e non il peccatore). Racconta il fatto non chi lo ha commesso.
  • Senza u fissa, u furbu un campa! (Senza gli ingenui, i furbi non vanno avanti).  
  • Si un niasci viscannu, zu peppe te fa ru vagnu! (Se non segnali la tua presenza rischi di beccarti il piscio in testa). Era un consiglio quando ancora non c’erano i gabinetti in casa.
  • Dduve cce su i fatti, un servanu e parole. (Dove ci sono fatti non servono le parole).
  • Fa cumu t’è statu fattu ca u d’è peccatu! (Fai come ti è stato fatto ché non è peccato). Se ti comporti con gli altri come loro fanno con te, nessuno potrà dirti nulla.
  •  Male un fare, paura u d’avire! (Se non fai male non hai nulla da temere).
  • Matrimuni e viscuvati, du cialu su distinati! (Il destino decide matrimoni e vocazioni).
  • Megliu n’aiutu ca ciantu cunsigli. (Meglio un aiuto che cento consigli).
  • E finestre du paise tenanu tutte e ricchie tise. (Le finestre del paese hanno tutte le orecchie attente). In paese si sa tutto di tutti.
  • Fatte i fatti tui ca campi ciantu anni. (Chi si fa gli affari suoi vive cento anni=. Non si trova nei guai).
  • Gente e marina futte e camina. (Quando incontri gente di mare, utilizzale se vuoi, ma liberatene appena puoi.
  • I parianti su cumu e scarpe, cchiu su stritti e cchiù te fanu male. (I parenti sono come le scarpe, più sono stretti e più fanno male).  

Infine, da questi, traspare una società profondamente patriarcale e maschilista in cui la donna era poco considerata e aveva un ruolo subordinato e da comprimaria.

  • Aru lustru da lumera tutte e fimmine su de na manera. (Al buio tutte le donne sono uguali).
  • Fimmina ca rida è cumu gaddrina ca canta, un cce tinire spiranza! (Non avere fiducia in una gallina che canta e una donna che ride=.   
  • Fimmine e sumere (asine), dduve su, fanu fere. (Donne e asine fanno solo casino).
  • A chine puazzu a muglierma puazzu. (Per ogni incazzatura ci va di mezzo la moglie). Sono sempre i più deboli a fare le spese dei torti subiti da altri.
  • Amu fattu a matinata e ra figlia fimmina. (È arrivata l’alba e la figlia è femmina).  Abbiamo solo perso tempo perché la neonata è femmina.
  • Fimmina de gghiasa, diavula de casa. (Occhio alla donna bigotta, perché è santa in chiesa diavola fuori).
  • All’uaminu a scuppetta, ara fimmina a quazetta. (All’uomo lo schioppo, alla donna il calzino). A ognuno il proprio lavoro e alla donna quelli di casa.
  • Figlia fimmina e vutte de vinu, dacce caminu. (Figlia femmina e botte di vino prima puoi mandarle via, meglio è). Seppure asse portante della famiglia
  • A casa senza fimmina è cumu na scupa senza manicu. (Una casa senza donna e come una scopa senza manico). Inutilizzabile,
  • Na mamma mantena dece figli e dece figli un mantenanu na mamma! (Una mamma mantiene dieci figli, ma poi dieci figli non sono capaci di mantenere una madre).

 

         Con la preziosa collaborazione di A. Coltellaro

Nelle nostre piccole comunità caratterizzate dalla presenza di pochi cognomi e dove spesso anche i luoghi hanno un cognome (Stranges, Paoli, Maruatti), uno dei fenomeni più caratteristici è senza dubbio quello legato all’utilizzo dei soprannomi.
Sicuramente a ognuno di noi di fronte alla classica domanda fatta da un anziano, a chine appartiani? Sarà capitato di dover ricorrere al soprannome di famiglia per fugare ogni dubbio.
Ovviamente c’è chi lo fa con orgoglio e chi invece se ne vergogna un pò. Noi siamo del parere che i soprannomi siano un tratto distintivo, un’antica usanza che per fortuna non si è persa e vada in qualche modo tramandata. Perché quest’epiteto che accompagna, e a volte addirittura sostituisce il cognome, indica appartenenza a un ceppo familiare, a un luogo o a un lavoro. Un soprannome designa una persona, la relaziona e la lega a una famiglia. Un soprannome ci rende unici, scansando anche i dubbi derivanti da omonimie. Ci sono soprannomi che derivano da professioni, altri dalla trasformazione di nomi propri o
cognomi. Alcuni indicano la provenienza, altri traggono origine da avvenimenti particolari. Altri ancora sottolineano una peculiarità fisica e caratteriale dell’individuo. A ogni modo, un soprannome racchiude in sé un insieme di valori belli da trasmettere. Andiamo, dunque, alla scoperta dei principali soprannomi conflentesi.

 

I soprannomi Conflentesi

A Conflenti il complesso di soprannomi è molto ricco. Ce ne sono dei più svariati. Di alcuni si può intuire il significato, molti altri, invece, difficili da decodificare. Per esempio, gragagli, chianci e ancora prigatoriu, cariuali e pirilli, chissà cosa stanno a indicare.
Su alcuni si possono fare congetture. I puarzi e i purziani potrebbero aver avuto un’antenata chiamata Porzia o magari prussiana. Micusei magari deriva da Micu, Domenico. E i minnicini provenivano da Mendicino? Per taliani potremmo pensare una forma dialettale di italiani, a un avo di nome Italia o Italo. L’“ohi boh” detto sovente da un signore gli affibbiò il soprannome di bobba. Con bruacculinu viene facile il collegamento ai broccoli ma, seguendo Butera, capiamo si tratti di qualcuno emigrato e poi ritornato da Brooklyn. Panara ci riporta alla mente i panari, cesti. E schette e ri schiatti erano persone non sposate, o estremamente schiette? Poi ci sono i pagani, i palini e i gesari, probabilmente derivante da Cesare. A barona, simintiaddri, paluviasci papacojja, miscimarra, ‘a stocca e ‘a marca. Cinniriaddri, ciarrune, gesimunnu, vriddrivoi, i cuaschi, e trancheddra. E ancora, i volantini e ri ricchitisi, i brei, i bricchi, i papicchi e ri papuni, i citari, i vuapu, i duardi i murani, i chiariaddri, i ciciazzi, i vruschi, i lucci e i ciccupeppe, i sassini, i pulisena e ri pezzavecchia.
‘A martareddra, forse derivante da Marta. I spatari ebbero probabilmente qualcosa a che fare con le spade. E i scarpari, soprannome per designare i calzolai e i chiuvari, ossia falegnami. I postini di un tempo venivano soprannominati pustiari. Mentre chi gestiva un mulino era, ovviamente, nu mulinaru. E non finiscono più. Nelle zone di San Mazzeo sono diffusi i cirasi, i mucciacci, e i tirisini. E ancora diani, rusarini, vei e pasqualiaddri. Sbardacani, cugnu e cugniattu. C’era poi u sceriffo: un signore innamorato del genere western tanto da dare ai propri figli nomi di personaggi dei film che amava.

Un esempio di soprannome derivante da un nome proprio è Giommarii, ‘appartenenti a Giammaria’. Un altro è tadora, con ogni probabilità dialettismo di Teodoro. Dal pronunciare in dialetto il cognome Bombino ne è derivato il soprannome Bummini. Mentre Riccardo era chiamato u napulitanu perché proveniente da un paesino campano. Molti sono i soprannomi derivanti da professioni, e di alcuni ve ne abbiamo già parlato. I lattari producevano e vendevano latte. I nivari conservano la neve. E con la stessa neve facevano delle coppette, da qui, infatti, l’altro soprannome coppariaddri. I quadarari, invece, riparavano quadare, grandi pentoloni. I fhurgiari erano fabbri. Poi abbiamo i paracauzi: persone così generose da donare persino i propri pantaloni a chi ne avesse bisogno. Cacavajane, invece, era una famiglia di gente molto loquace. Calestra sta a indicare un’altezza fuori dal normale. E una persona alta che passava molto tempo ferma in piedi veniva soprannominata, nu pilune, ossia un palo della luce. Specchie era l’epiteto dato a delle donne di estrema bellezza, un piacere per la vista. E vurpi erano, naturalmente, molto furbi. I girunni erano chiamati così perché amavano andare in giro per il mondo. I riganiaddri erano e sono così numerosi che si espandono come l’origano. Dietro a piddricchjia c’è, poi, tutta una storia: fratelli e sorelle, in tempi di carestia, litigavano per magiare e piddricchie ossia le bucce della soppressata.

Insomma, a Conflenti abbiamo un ampissimo ventaglio di soprannomi, noi ne abbiamo raccolto un bel po’ e forse qualcheduno di voi, leggendoli, si ritroverà in qualcuno di questi.

 

Il Centro di Cultura Popolare, guidato per lunghissimo tempo dal Prof. Pasquale Paola, recentemente scomparso, ha svolto un ruolo determinante per l’evoluzione socio-culturale di Conflenti a partire dall’immediato dopoguerra.
Questa bella realtà nata negli anni ‘50 con fini nobili, ha perseguito e raggiunto nel corso del tempo, enormi obiettivi, rappresentando il più grande movimento culturale che il comprensorio abbia mai conosciuto, uno dei più grandi in Calabria.

Ricordarne l’opera significa richiamare alla memoria un cinquantennio di storia del secolo scorso in cui il paese, grazie al Centro UNLA, si è emancipato, uscendo dall’isolamento e dai drammi della guerra, aprendosi culturalmente e socialmente.
Il Centro ha rappresentato, con la sua azione di alfabetizzazione, una grande opportunità di riscatto culturale e sociale per tantissime persone, altrimenti destinate alla rassegnazione.
Era il 1951 quando la sede centrale di Roma dava la sua autorizzazione ad aprire a Conflenti (allora 5100 abitanti) un centro per la lotta all’analfabetismo che toccava il 40% con punte ancora più elevate nelle campagne, mentre l’indice di eliminazione scolastica toccava il 70% degli alunni che non concludevano le elementari.
La situazione economico-sociale ed igienico-sanitaria era veramente drammatica, eredità di una storia di isolamento e abbandono e, più recentemente della guerra.
Su questa realtà prendeva corpo l’apertura del Centro, con Pasquale Paola direttore e Antonio Isabella, Michele Cimino, Nicola Marotta e Ferdinando Mastroianni componenti il direttivo e con l’intento, come si legge in una storica lettera del direttore di “dare una mano alla comunità per uscire dallo stato di desolazione e per avere un luogo come punto di aggregazione e assieme crescere nella libertà e nella autonomia.

L’apertura del Centro fu per la comunità un avvenimento senza precedenti, che come vedremo, contribuì a modificare le abitudini dei suoi abitanti, fornendo finalmente una alternativa alle sovraffollate cantine.
L’iter che si dovette seguire per giungere all’apertura non fu né semplice né breve, tutte le strade furono perseguite, anche quelle dei “buoni uffici degli amici” e della chiesa, con Don Riccardo in prima linea.
Il problema della sede fu risolto inizialmente grazie alla disponibilità dell’allora commissario prefettizio, Giuseppe Folino, che concesse inizialmente un locale comunale e successivamente, quando ci fu bisogno di spazi più ampi, prendendo in affitto altri locali, prima in via Garibaldi e poi nella storica sede di via Marconi.

L’attività del Centro di Cultura iniziò ufficialmente il 9 gennaio 1952, per i primi anni ci si occupò per lo più di distribuire alla popolazione in difficoltà generi alimentari e vestiario proveniente dagli USA e dalla Svizzera.
Poi il Centro ebbe dalla sede centrale una fornitura di apparecchiature radio, una enciclopedia e libri per l biblioteca e così iniziò a funzionare la sezione culturale con 40 iscritti.
A Conflenti grazie all’opera del Centro di Cultura si capì ben presto che bisognava investire in cultura, e così in poco tempo quasi il 90% dei ragazzi proseguì negli studi contro una media del 20-30% degli altri paesi.
L’entusiasmo iniziava a prendere il sopravvento sulla rassegnazione precedente, ben presto si sentì il bisogno di allargare anche alla partecipazione delle donne e fu istituita una sezione femminile. Suor Francesca era la responsabile e insegnava alle allieve a cucire e ricamare nei locali dell’asilo.
Le ragazze affluirono in gran numero e questa – far uscire le ragazze dal loro isolamento – fu una delle più significative vittorie del Centro.

Le attività principali continuavano a essere rivolte al recupero degli analfabeti, con corsi serali per permettere a tutti di conseguire la licenza media, ma Pasquale Paola in qualità di dirigente, intuì che bisognava aprirsi anche al mondo del lavoro per permettere un riscatto sociale vero alla popolazione bisognosa.Fu avviato un laboratorio di falegnameria, che dopo un inizio stentato, iniziò a funzionare dotando la sede delle necessarie suppellettili e in seguito all’arrivo di altri macchinari furono avviate altre sezioni di lavoro manuale e avviati corsi di muratura, di fotografia, di bibliotecario, di traforo, plastica, radiotelegrafia e apicoltura.

 

Il numero degli iscritti aumentava sempre di più, ad un certo punto si raggiunse il numero di 800 con ben 10 sezioni di lavoro.
Le iniziative portate avanti dal Centro erano tantissime e la loro incidenza fortissima, anche nel campo sociale, tra di esse vogliamo ricordare anche la sistemazione del tratto di strada che dall’uscita dal paese conduceva verso il cimitero, la distribuzione dei regali della befana ai bambini nel 1956, la refezione calda nelle scuole delle contrade e la partecipazione ad un programma di cultura internazionale per l’integrazione multietnica che portò nel nostro paese, negli anni ’60, ragazzi africani.
Da sottolineare negli anni ’70 anche la stampa di un periodico intitolato “Grandangolare” diffuso sul territorio e anche tra gli emigrati e, successivamente, l’installazione della prima “Radio Libera Grandangolare”, un esperimento che ebbe un ottimo riscontro e coinvolse moltissime persone.

In quegli anni bisogna ricordare anche il fondamentale contribuito a far conoscere la poesia dialettale di Vittorio Butera, con un premio di poesia a lui dedicato e la pubblicazione di una raccolta di poesie inedite. A partire dagli anni ’80, anche grazie all’attivismo del prof. Porchia, subentrato nei quadri dirigenziali, il Centro ha supportato varie iniziative musicali e sportive , anche se il fiore all’occhiello è sicuramente da considerarsi il Gsg Grandangolare di tennistavolo che ha raggiunto obbiettivi molto prestigiosi anche a livello nazionale.
Molto apprezzate anche le estemporanee di pittura e le varie mostre fotografiche sui mestieri, sulle tradizioni, sulla paesaggistica e sui personaggi del passato conflentese.

 

La produzione agricola più rilevante a Conflenti è stata per lungo tempo quella del vino.
A Conflenti i vigneti erano tanti e sparsi in tutte le zone del paese: da Muraglie alle Pastine, dall’Ardano a Savizzano, da Gallitelli a Cirignano e tanti altri ancora.  Tutti i terreni erano sfruttati, anche quelli più scoscesi che richiedevano opere di terrazzamento abbastanza complesse.

In tanti erano proprietari di vigneti, piccoli o grandi e ci si lavorava tutto l’anno. Un lavoro duro che richiedeva impegno, sacrificio e abilità. Tra i proprietari possiamo ricordare Giuanni e Giuliu,i Conami, Ernestu Paula, Nicolinu Folinu, Piatru Rasu, Micuadinu, Grigoriu Roperti, i Montoru, i Stranci, Ginu Villella,  i Calabria,  u farmacista Pantanu.

La vendemmia era una gran festa, durava una quindicina di giorni e coinvolgeva tutto il paese, che viveva l’evento con agitazione e trepidazione. Di tutti gli odori che caratterizzavano quel periodo autunnale quello del vino e dell’uva era il più intenso.
Il vino era, quasi esclusivamente rosso, era molto buono e se ne produceva una gran quantità. Qualcuno lo utilizzava per uso proprio e altri lo commercializzavano. Nel paese se ne faceva tantissimo uso, c’erano cinque o sei cantine e tutte molto frequentate: Maria e Costantinu, Nicola e Polina, Giuanni e Peppe a Marca, Carru Audinu e Michele e sassinu. Ma, seppure indirettamente, questa produzione era il motivo di esistere anche per cestai e barilai che fornivano tutto il materiale necessario per la raccolta, il trasporto e la conservazione.
La quantità che si produceva era notevole, oltre ventimila quintali e per commercializzarla nel paese sorsero importanti attività, quelle per es. di Peppe e vricita, Lelle a magara, Ernestu Baratta, Micu Espositu, Battista Folinu e Ninni Roperti.

Ecco la testimonianza di uno degli ultimi commercianti, Sistinu purzianu che purtroppo da poco è venuto a mancare all’affetto dei suoi cari.
“I miei ricordi vanno dal 1944 in poi, da quando avevo dieci anni. Il commercio del vino si esercitava già da tempo, anche durante la guerra. I commercianti erano tanti e inizialmente lavoravano tutti assieme, ognuno con un compito, papà si limitava a fornire il capitale e a fare la contabilità. Non viaggiava, gli altri acquistavano e vendevano. Inizialmente il trasporto veniva fatto con carri e muli. Poi comprammo un camion, il primo autista è stato Bruno Gimigliano l’unico ad avere la patente necessaria. Subito dopo la guerra Peppe e vricita si staccò da noi, comprò un camioncino chiamato Visconteo e cominciò, aiutato dal figlio, a commerciare nei paesi più lontani.

Noi, il primo camion serio, un fiat 126, lo comprammo dopo la guerra a Roma con l’aiuto di Eugenio Isabella di San Mazzeo, allora direttore del Policlinico a Roma, in seguito comprammo un fiat 509, un fiat 626 e tanti altri per finire poi ad un Alfa Romeo 750.
Sino agli anni ‘50 la produzione era tutta locale, i produttori più importanti erano i Pontano, i Montoro, gli Stranges e Don Paolino Villella.
Tra gli operai che abbiamo avuto ricordo Giuanni e juriddru, Michele u paganu, Garibaldi e Jacupinu che in seguito andò a lavorare con Ernesto Baratta.  Andavamo dappertutto, in tutti i paesi del circondario e della provincia fino a Sellia e Sersale, facevamo pure il commercio delle castagne pelate. Negli anni Sessanta ho cominciato a viaggiare pure verso il Nord, arrivavo fino a Torino, dove poi, un altro conflentese, Rolando Aiello, mi aiutava nello smercio. Ho lavorato finche’ ho potuto, finche’ me lo ha permesso l’età, ma la produzione locale alla fine era nulla e smerciavo vino fatto con uva di altre regioni”.

 

                            Dal blog di A. Coltellaro “Dialetto conflentese”.