Tra gli anni ’70 e ’80 a Conflenti c’era un grande fermento culturale e politico. Allora il piccolo centro del Reventivo contava oltre tremila abitanti. I giovani avevano sete di conoscenza e di voglia di fare. In questo contesto nasce “Radio Grandangolare”. Una radio vera e propria che trasmetteva sulle frequenze 99 e 106 MHz ed era ascoltata perfino in Sila.

La nascita di Radio Grandangolare

Nell’ambito del centro di cultura diretto da Pasquale Paola si pensò di creare una radio libera già sul finire degli anni ‘70. Esisteva un periodico con il nome “Grandangolare” al quale successivamente fu associata anche la radio in Fm che trasmetteva 24 ore su 24. Venne regolarmente istituita e furono comprate tutte le attrezzature necessarie. Così le tristi sere d’inverno a Conflenti divennero più briose. Chi ha vissuto quegli anni ha forte nostalgia di quell’esperienza di unione ma anche formativa. Grazie alla radio Conflenti iniziò ad essere conosciuto in tutto il territorio cosentino. Anche se fu attiva solo per una decina di anni il suo ricordo è ancora oggi indelebile.

Era un periodo politico abbastanza caldo e l’obiettivo della radio fu anche quello di unire i vari gruppi oltre a dare la possibilità a tanti ragazzi di poter parlare pubblicamente e quindi di migliorarsi dal punto di visto dialettico ed espressivo. Esisteva già anche il Centro di cultura popolare (ora Centro di educazione permanente): un laboratorio di diverse attività sportive e culturali. Il tutto sotto il nome di “Grandangolare”. Oltre una ventina i giovani che vennero coinvolti dal progetto. Si trattava di una radio importante e veniva perfino trasmessa la partita del Catanzaro che allora era in serie A. Il livello culturale a Conflenti era notevole e studiava già una percentuale molto alta di giovani.

I programmi e le dediche.

“Radio Grandangolare che trasmette da Conflenti è la radio… la super radio… è la radio più allegra che c’è”. Questa la sigla che da Conflenti partiva per arrivare fino in Sila. Copriva circa 80, 90 paesi in tutta la Calabria. La radio trasmetteva anche di notte con il mitico programma “L’uomo della notte”. Poi c’era “Musica magica”, “Mezzogiorno di fuoco” e, ancora, “La battaglia navale”. Molto in voga e apprezzato anche il programma “Exstensive”.

La sezione dedicata alla musica a richiesta, domenica mattina alle 8 c’era infatti anche un programma di cantautori. Tantissime le chiamate in diretta.C’è chi ricorda anche di tanti amori sbocciati grazie alla radio e alle sue famose dediche. Chi ha vissuto quegli anni ricorda con nostalgia anche di bigliettini lasciati in forma anonima sotto il portone della sede. Una pagina culturale che merita di essere ricordata e tramandata.

Sicuramente a ognuno di voi, passeggiando su e giù per Via Garibaldi, la strada più importante di Conflenti, è capitato di chiedersi come era questa strada un tempo e da chi era abitata.
A noi, lo sapete, piace raccontare il passato, recuperare la memoria storica dei luoghi e allora ammirando le stupende foto storiche del maestro Umberto Stranges e guidati dal racconto emozionante del professor Corrado Roperti, abbiamo fatto un fantastico viaggio a ritroso nel tempo, portandoci su via Garibaldi degli anni quaranta del secolo scorso.

A quel tempo tutto era molto diverso da come ci appare oggi.
Le case erano tutte prive di intonaco (che bello!), rivestite in pietra civata e piene di buche pontaie, quasi tutte più basse di un piano, aggiunto poi generosamente col tempo.
Il piano stradale era completamente diverso, non esistevano né cunette, né marciapiedi, l’inclinazione del piano stradale era esattamente al contrario, con l’acqua che defluiva verso il basso, al centro della strada.

Il selciato era costituito da grosse pietre abbastanza regolari e piatte, portate faticosamente coi muli dal fiume Salso. Al centro c’erano due strisce quasi continue, a distanza di circa un metro l’una dall’altra, formate mettendo in fila le caratteristiche basulate, ossia, pietre vulcaniche di forma rettangolare.
Le basulate erano state posizionate in quel modo per creare un percorso obbligato più agevole per il transito dei carri e delle poche auto allora esistenti.

Purtroppo però avevano una controindicazione molto sconveniente perché rendevano molto complicato il passaggio di asini e muli che, soprattutto quando erano carichi, non riuscivano quasi a restare in piedi scivolando di continuo. Per eliminare questo inconveniente il Podestà di allora provvide a fare creare delle scanalature su ognuna di esse da un “mastro locale”.Ai cigli della strada, poi, erano distribuiti alcuni caratteristici blocchi di pietra di forma cilindrica, cavati dai mastri scalpellini del basso Savuto.
Queste grosse pietre non erano altro che una sorta di stazione di sosta per lo scarico della merce dalle ceste dei muli, in pratica mentre si caricava o scaricava una delle ceste vi si poggiava l’altra, così da mantenere l’equilibrio e alleggerire l’animale.

Di queste pietre oggi ne rimane una sola, nei pressi di Palazzo Montoro.
Ai gerarchi fascisti del tempo piaceva dire che questo blocco era stato portato direttamente dall’Africa durante la campagna di Etiopia.
Sui muri di alcune case poi erano attaccati degli anelli di ferro che servivano per legare gli animali da soma, di questi maniglioni ne rimangono ancora alcuni su Palazzo Folino.
Altra curiosità che vogliamo raccontarvi riguarda le due mensole di marmo bianco ancora visibili su Palazzo Montoro, che erano state messe in quel periodo accanto all’entrata della Casa del Fascio e reggevano simboli del regime.
A quel tempo ovviamente non esisteva Piazza Pontano e la curva di fronte a Palazzo Isabella era molto stretta e delimitata da un piccolo muretto, che si interrompeva alla fine della curva perché c’era una fila di piccole case che portava alla cava del “fiego”.

Ma chi abitava e cosa c’era sulla strada più importante del paese in quegli anni?

Su via Garibaldi vivevano nei loro bei palazzi nobiliari le famiglie più ricche e influenti dell’epoca: la famiglia Montoro del medico del paese, don Vittorio, la famiglia del mitico Comandante Stranges, Ammiraglio della Regia Marina, la famiglia Isabella del Podestà di quel tempo, e ancora le famiglie Pontano e Roperti dei due influenti farmacisti del paese e le famiglie Calabria, Talarico, tutti ricchi possidenti terrieri. E ancora la casa di Don Stefano, il prete esorcista col famoso purtune du paracu, e poi scendendo le case dei “Dduoghi’ discendenti dei nobili Vescio e ancora sotto in zona San Giuanni i palazzi nobiliari più antichi di Conflenti. 

Ma via Garibaldi era anche un pullulare di gente e su di essa si concentravano gli uffici più importanti e le attività che hanno fatto la storia del paese. Su di esso c’erano la Caserma dei Carabinieri dell’indimenticato maresciallo Talia, la casa del Notaio Mastroianni e dei suoi figli, avv. Aldo e l’altro medico Don Lino, l’Esattoria e soprattutto il Municipio con sotto la molto temuta Casa del Fascio, del potente segretario Giuanni ‘e Giuliu.

Per quanto riguarda le attività è doveroso ricordare il primo bar del paese, quello di Rinuccio (attuale bar Centrale), il mitico salone di mastru Pulitano barbiere specializzato in sfumatura alla tedesca e munnareddre e, in una piccola traversa, la locanda di Bertu e Prigatoriu, unico albergo del paese e ancora la sartoria di Peppino Villella, conosciuto come Peppino ‘e Ferrante.

Il viaggio nel tempo finisce qua, ci auguriamo che sia stato divertente.

 

Di Corrado Roperti

Nel febbraio 1806 le truppe francesi guidate da Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, invasero per la seconda volta l’Italia Meridionale. Il Re di Napoli Federico IV e la corte fuggirono in Sicilia. 

In poco tempo tutta la Calabria fu occupata dai francesi guidati dal generale Reynier e dappertutto si diffuse il terrore in quanto gli invasori si lasciarono andare ad azioni intimidatorie e a veri e propri saccheggi. Particolarmente pesante e insostenibile si era fatta la situazione nei paesi del Reventino dove le truppe dei francesi imposero ogni genere di vessazioni e abusi.

Conflenti, bisogna ricordarlo, era il paese di Panedigrano, uno dei briganti più temuti dai Francesi, che in questa situazione aveva scortato i principi reali in Sicilia.
A seguito di uno dei tanti episodi di spregevole brutalità da parte dei francesi, a Soveria scoppiò una rivolta, che immediatamente si diffuse nei paesi vicini, soprattutto Conflenti e Martirano ma, poi, anche a Gizzeria e Sambiase.
La reazione francese fu brutale, pesantissima, in particolare a Conflenti e Soveria, focolai della rivolta, che vennero messi a ferro e fuoco. Nel nostro paese i transalpini riuscirono a individuare e catturare perfino un giovanissimo figlio di Panedigrano, che da lì a poco venne giustiziato a Cosenza.
Malgrado la brutale repressione e nonostante le terribili punizioni individuali inflitte ai rivoltosi, molti insorti, nascosti negli inaccessibili rifugi di montagna, non si erano per nulla rassegnati alla sconfitta.
Il focolaio della rivolta covava e dopo un paio di mesi, un manipolo di seguaci di Panedigrano, comandato dal figlio Gennaro, assaltò ad Acquabona un drappello francese guidato in qualità di ufficiale dal famoso Paul Louis Courier, scrittore e studioso autore di varie opere di notevole ingegno. 

Courier e i suoi, furono spogliati di ogni cosa e condotti nudi dopo un lungo cammino, in un nascondiglio nei pressi di Conflenti. Qui i malcapitati divennero oggetto di scherno e di sevizie per alcuni giorni.
Intanto a Conflenti, di ritorno dalla Sicilia, era rientrato Panedigrano per effettuare un nuovo reclutamento di massa contro i francesi.
La sua prima azione, malgrado fosse stato messo al corrente della cattura del figlio, fu una sorprendente lezione di magnanimità e generosità.
Quando dal figlio Gennaro gli furono messi davanti i francesi catturati e destinati alla fucilazione, Panedigrano, dimostrando una grande sensibilità, colpito dalla grande dignità che mostrava Courier a differenza dei suoi compagni che imploravano pietà, salvò da morte sicura l’ufficiale francese.
Panedigrano, infatti, persuase i suoi compagni a lasciare a lui la cura di seviziare il prigioniero perché, disse, voleva vendicarsi della cattura del figlio.
Lo fece, quindi, accompagnare in paese e lo rinchiuse in un sotterraneo della sua casa, che era vicino al Piro, e più precisamente quella attualmente occupata dalla nostra cara Donna Franca.

Qui durante la notte, conversò a lungo con lo scrittore e poi, certamente per rispetto dell’uomo di cultura, che si era dichiarato solo spettatore e cronista di quella guerra, decise di lasciarlo libero e farlo fuggire, dandogli pure una scorta, affinché potesse raggiungere, attraverso le scorciatoie, Nicastro.
Gli spiegò che aveva mostrato accanimento verso di lui solo per poterlo salvare, quindi gli aprì le porte e lo fece fuggire.
L’episodio è stato in seguito ricordato dallo stesso Courier nelle sue memorie e dallo storico Sacchinelli nel libro sulla vita del Cardinale Ruffo.

 

                          Di V. Villella

Un articolo scritto al passato ma attualissimo, nulla è cambiato.

Al paese di svaghi non ce ne erano tanti.  Le donne passavano giornate intere sugli scalini di casa a ricamare e fare pettegolezzi, gli uomini passeggiavano, parlavano di donne e di sport e giocavano a carte.
Era questo un gioco che conferiva prestigio nel piccolo panorama paesano.
Alcuni giocatori sono diventati quasi una leggenda. A carte giocavano tutti, piccoli e grandi.

Come in tutti gli sport, c’era una scala di valori in cima alla quale c’erano i campioni venerati e rispettati.  Con loro era difficile giocare. Si concedevano poco e non al primo venuto; un onore riservato solo a chi, nel tempo, vincendo più partite, aveva dimostrato di saperci fare.  La partita col campione rappresentava la definitiva consacrazione.

Si giocava a scopa, briscola, tressette e calabrisella. I primi erano giochi che conoscevano tutti gli ultimi riguardavano solo la gente più impegnata.
Si giocava in tutte le ore del giorno, ma le ore del tramonto erano le più indicate in quanto forse il caldo toglieva concentrazione.

Quasi sempre il gioco cominciava in sordina, come di consuetudine  la proposta di iniziare non veniva mai accettata al primo invito ma solo dopo un po’ di cerimonia.
Là inizio era sempre senza spettatori.  Poi qualcuno si avvicinava con indifferenza e accostava una sedia, subito dopo un altro e poi un terzo e un quarto sino a quando intorno si formava un capannello e il gioco diventava sempre più serio.
I giocatori si sentivano osservati, giudicati ed ogni mossa doveva essere attentamente meditata.  Più gente c’era intorno e più lentamente procedeva il gioco.  Le pause diventavano sempre più lunghe.  Mai una mossa affrettata.  La platea richiedeva il massimo rispetto.  Il coinvolgimento diventava generale e la partita vissuta con grande partecipazione.  Si gioca in otto o dieci, la mimica facciale acquista una importanza rilevante.

Il giocatore osserva, riflette e con la coda dell’occhio si guarda intorno.  La sua mano tocca una carta poi un’altra, la sceglie, la solleva, si prepara a giocarla; ma poi ci ripensa e la riporta indietro e se l’amico in platea ha la faccia imbronciata, la mossa è forse avventata.
Altra pausa di riflessione.  Il giocatore finge indifferenza e manifesta sicurezza, perché sa che questa è ritenuta una dote fondamentale.
Si riparte con decisione, la mano si sposta su un’altra carta, si cerca l’impercettibile cenno di assenso dell’amico e la giocata è fatta.
Intorno c’è chi biasima e chi loda.  Da una mossa dipende il prestigio di un giocatore.
Le partite durano una eternità e mai finiscono con la fine del gioco.
Finito il “gioco giocato” comincia il processo, le interminabili discussioni del dopo partita, e anche qua bisogna essere molto abili e mostrarsi sempre sicuri.
E come sempre la vittoria ha tanti padri, ma la sconfitta è figlia di uno solo.  E per quel solo è, una giornata triste, pieno di sfottò, un giorno nero da dimenticare.

 

          Di A. Coltellaro

Don Stefano Stranges fu per moltissimi anni parroco del paese, nonché Vicario foraneo della Diocesi. La moralità di questo ministro di Dio era ineccepibile, la sua rettitudine inimitabile e la sua fede nel sacerdozio incrollabile.

Per queste sue alte qualità morali fu anche un “eroico” esorcista, cioè uno dei pochissimi sacerdoti cui la chiesa, in casi eccezionali, concede questa particolare licenza e il duro compito di purificare le anime dal ”Maligno”, ingaggiando con lui lotte terribili.

Ci fu un periodo in cui a Conflenti portavano da tutta la Calabria le persone indemoniate, le cosiddette “spiritate”.
Il Santuario era il luogo sacro in cui venivano liberate e Don Stefano svolgeva la sua missione d’esorcista.
Per noi ragazzi quando arrivavano gli “spiritati” era una festa; per Don Stefano era l’inizio di un calvario. Le bestemmie, le parolacce, gli sputi che l’indemoniato rivolgeva al sacerdote erano della peggiore volgarità. Ma non appena l’esorcista indossava la stola viola e impugnava la voce di Cristo diventava invincibile.  

Fra i tanti voglio ricordare un episodio.
Era un giorno freddo, ma luminoso di gennaio. A Santa Maria si fermò la macchina di Carmine Calipari. Ne discese una ragazza, quasi ventenne, coi suoi familiari.
In paese si sparse subito la voce che era arrivata una “spirdata”.
Don Stefano ne fu informato e si avviò verso il Santuario. Nel frattempo la piazza si era riempita di persone, come sempre accadeva in queste circostanze.
La ragazza si avviò spontaneamente verso la chiesa, ma giunta sulla porta del Santuario di colpo si fermò e a nulla servivano le spinte che le davano gli uomini accorsi dalla cantina di “Peppe a Marca”: la donna dimostrava di avere una forza sovrumana.
La sua voce non era quella di una giovane ragazza, ma quella aspra e forte di un uomo delle caverne, sentirla parlare era una cosa terrificante.
Finalmente Don Stefano sopraggiunse, alla vista del sacerdote la ragazza divenne furibonda e le ingiurie e invettive contro l’esorcista aumentarono. 

La ragazza perse le forze e cadde di colpo, sbattendo la fronte a terra.
Ci si aspettava di vedere un fiume di sangue invece dopo un poco, fra la sorpresa generale, la ragazza alzò la testa, aprì gli occhi e ignara di tutto chiese dove si trovasse.
Ritrovò la voce naturale di ragazza e, informata dell’accaduto ringraziò la Madonna, baciò la mano di Don Stefano e fece ritorno al suo paese.
Don Stefano invece, seppur stremato, si fermò ancora in chiesa per pregare per quella povera anima che aveva conosciuto il tormento e la sofferenza del male.

 

 

Corrado Roperti da Novecento Conflentese

Il Bar Centrale e Piazza Pontano, ormai indissolubilmente legati, rappresentano il cuore pulsante del paese, il punto di ritrovo spontaneo di tutti.
Luoghi di incontro nelle sere d’estate, crocevia di lunghe chiacchierate, tornei, dibattiti politici e tanto altro, per decenni le vicende di Conflenti hanno calcato questi spazi comuni al centro del paese.

Eppure fino a metà degli anni Ottanta, la piazza, poi intitolata a Tommaso Pontano, conflentese e direttore del reparto di malattie infettive dello Spallanzani di Roma oltre che medico di Mussolini, non esisteva proprio, esisteva solo la strada delimitata da un muretto e sotto c’era un canale per la raccolta delle acque.

 Poi, il 1986, l’amministrazione di allora riuscì a ottenere un finanziamento e consolidò tutta l’area che era molto instabile e aveva compromesso sia delle abitazioni private che un mercato coperto mai aperto proprio perché pieno di crepe. 

Approfittando di questo finanziamento si costruì anche la piazza che comunque ha avuto diversi cambiamenti nel corso degli anni. Negli anni Novanta, si decise per lo sgombero dell’unico immobile rimasto e si realizzò un parcheggio e una strada di collegamento con la strada sottostante. Ma soprattutto, si realizzò una piazza più estesa con al centro una fontana zampillante. 

Da quel momento, la piazza di fronte al Bar è diventata per tutti a piazzetta, spazio di aggregazione, motore pulsante di eventi, serate e incontri durante tutto l’anno conflentese. 

Il Bar Centrale, invece, oggi di proprietà dei fratelli Marco e Cristian Villella, ha una storia un po’ più lunga.
Il fondatore di questo storico bar fu Remo Rubino, da tutti conosciuto come ‘Rinuccio’, persona amabile e sempre disponibile che creò uno spazio per le chiacchierate, gli incontri, le partite a carte e le serate che il Bar Centrale ospitava in quegli anni.
Era il 1937, quando Rinuccio, all’epoca quasi trentenne, decise di mettersi al servizio della comunità conflentese aprendo questa che sarebbe diventata una intramontabile realtà.
In poco tempo infatti sottrasse clienti all’altro bar storico, quello di Coltellaro. 

 

Rinuccio, più giovane e più attento ai tempi, seppe rinnovare e dare un’impronta moderna al suo locale e attirare lentamente anche i più giovani.
Come non ricordare infatti la prima macchina elettrica per il caffè espresso oppure, in piena estate, il primo banco frigo per bibite e gelati artigianali.
Chi voleva assaggiarli freschi, ai tempi, non aveva altra scelta che recarsi aru bar de Rinucciu e sedersi a un tavolino con lo sguardo rivolto alla Chiesetta della Querciuola.
Nel paese che allora contava oltre cinquemila abitanti, il bar diventò una vera e propria istituzione, un punto di riferimento. 

Se infatti il Bar Centrale era chiuso, tutto il paese si fermava, mentre bastava guardare le luci provenire dall’interno del bar per rimettere buonumore a tutti. Lì Rinuccio era sempre pronto ad ascoltarti e a strapparti un sorriso, anche grazie al primogenito Franco che, a partire dal 1949, faceva coppia fissa con lui dietro il bancone. Infinite poi erano le sfide a carte: tanti e agguerriti erano i giocatori che frequentavano ogni giorno il bar, pronti a strappare una vittoria di prestigio.
Tra questi si ricorda Vittorio Paola detto ‘u Commessu,  abile nel fare il celebre 48. Insieme a lui, Francesco Roberti, detto Cicciu e Curteddra, e Peronagi, il maestro Politano, il maestro Egidio per arrivare ai più recenti Ennio Butera e Francu e Michele.

Rinuccio e Franco gestirono il Bar Centrale sino al 1966, anno in cui lo stesso venne ceduto a Pasqualino Mastroianni. Da allora si sono avvicendate molte gestioni, ma il bar ha continuato a essere il punto di riferimento di sempre
Oggi, come abbiamo detto, Bar Centrale e “piazzetta” sono ormai un tutt’uno indissolubile, impossibile pensare al bar e non alla piazza o viceversa. Col tempo si è proceduto a nuovi ammodernamenti, sia del bar che della piazza, ma la magia è rimasta la stessa e quando il bar è chiuso tutto il paese sembra risentirne.

Il luogo ha conservato il fascino di un tempo, continuando a rimanere il luogo di ritrovo di tutti, come nei tempi passati, quando per rimanere connessi bisognava per forza incontrarsi per strada.

 

Conflenti non è un paese normalmente visitato dai turisti. Chi c’è stato, soprattutto nel passato, l’ha fatto o per scappare, vedi ebrei nel passato, o perché costretto, come nel periodo del fascismo, quando c’erano numerosi oppositori politici confinati da noi.
Un caso molto particolare e degno di essere raccontato è stato quello del linguista tedesco Gerard Rohlfs, che si fermò più volte nel nostro paese per i suoi studi sul dialetto calabrese, confrontandosi per questo con V.Butera, che a lui dedicò anche una bellissima poesia.
Nei suoi numerosi viaggi a Conflenti, in cui tra l’altro coltivò una bella amicizia e collaborazione con Pasquale Paola, direttore del Centro di Cultura, era solito dimorare presso la locanda di Bertu ‘e Prigatoriu, nel vicolo della cava e Puatru vicinu  aru Piru, che era l’unico posto a Conflenti in cui si poteva mangiare e dormire.

Nella locanda notoriamente si mangiava molto bene e il vino era ottimo, e il filologo che era un buontempone era un ospite molto gradito per la sua simpatia.
Numerosi sono gli aneddoti legati alla sua permanenza e alle simpatiche conversazioni con gli avventori del locale e con lo stesso proprietario Bertu, da tutti chiamato Zu Bertu e Prigatoriu.
Ve ne raccontiamo due che sono stati simpaticamente ricordati da Francu e Ricu e dal dott. Giovanni Paola, figlio del compianto Don Pasquale Paola.
La prima verte su una disputa riguardo la corretta dizione della parola dialettale che indica il fazzoletto, tra lo studioso e il locandiere di fronte ad una buona platea di curiosi.
Maccaturu secondo zu Bertu e muccaturu secondo il filologo tedesco, che giustamente, dal suo punto di vista, faceva notare che il termine aveva origine da muccu ossia muco.
La disputa era molto accesa e lo studioso argomentava con dovizia di particolari e appellandosi al buon senso riguardo alle origini del termine e facendo pure riferimento ai dialetti di altri paesi. La platea degli ascoltatori ad un certo punto convinta dalle spiegazioni dello studioso sembrava parteggiare per lui e zu Bertu sentendosi tradito dai compaesani, sempre pronti a buttarsi dalla parte del più forte, si alzò di scatto ponendosi muso e muso di fronte allo studioso, alzò il braccio e, unendo pollice e indice lasciando distese le altre dita, sentenziò ma cchi cacchiu me capiscire tu ca si germanese da parrata du paise miu e se ne andò stizzito.

Nel secondo episodio, sempre nella locanda e zu Bertu, si racconta che un signorotto dell’epoca che si trovava all’interno della medesima locanda, ascoltando il linguista parlare la lingua tedesca e ignorando che questi potesse conoscere perfettamente il nostro dialetto, si rivolse a lui, sicuro di non essere compreso, apostrofandolo con questa frase: intra e natiche!
Dal professore però ebbe immediatamente questa perentoria risposta a correzione: No, qui a Conflenti si dice intra e grispe no intra e natiche.    

Incredibile Rohlfs…..

Le suore del Cottolengo sono presenti a Conflenti da quasi un secolo, da quando, a seguito di un lascito della famiglia Maio, vennero chiamate nella nostra comunità per occuparsi del Santuario e istituire l’asilo per i bambini.
Da allora, la Casa delle suore ha costituito un riferimento educativo fondamentale, il lievito di azioni pedagogiche essenziali alla crescita umana, sociale e religiosa.
Hanno visto nascite e morti, hanno assistito a battesimi e lutti, hanno condiviso gioie e dolori di tutti e, nel periodo bellico e nel dopoguerra, hanno contribuito in modo determinante al miglioramento delle condizioni socio culturali dei conflentesi.
Se, da un canto, Conflenti ha inglobato nel proprio tessuto le Suore come sue figlie naturali, dall’altro le stesse vi si sono innestate amorevolmente da “sorelle”.

Quotidianamente, alla preghiera hanno alternato la laboriosità, secondo la tipica tradizione monastica: un tempo per pregare, uno per dialogare, uno per cooperare.
Le suore, pur tra continui avvicendamenti, hanno sempre garantito con pazienza, umiltà e tanto amore la cura del Santuario, contribuito alla crescita umana delle ragazze che si sono avvicendate nella loro scuola di ricamo, a quella dei bambini che hanno frequentato l’asilo ma allo stesso tempo hanno fatto sentire forte, seppur in maniera discreta, la loro presenza all’interno della comunità. Grazie a essa, noi conflentesi ci siamo sempre sentiti, fra tutti i paesi del circondario, dei privilegiati.

L’asilo delle monache del Cottolengo fu istituito con l’arrivo delle suore, direttamente dalla casa madre di Torino, negli anni ‘30.
Il nostro comune fu il primo ad averne uno nel circondario e le nostre madri le prime ad usufruire di un servizio simile, con un posto sicuro dove lasciare i figli, con la tranquillità di potersi dedicare senza preoccupazioni al loro lavoro.
L’asilo delle monache radunava tutti i bambini di Conflenti, che intorno agli anni ‘50 contava quasi 5.000 abitanti, e dunque straripava di bambini, oltre 50 per classe. Tante generazioni ricordano con nostalgia quei tre anni di asilo, il riposino pomeridiano sulle brandine, il gioco dell’oca sul terrazzo, la segatura di Mastru Cicciu o Mastru Lorenzu e Mastru Ernestu sparsa nel corridoio per asciugare l’acqua nei giorni di pioggia. E anche, perché no, le sculacciate quando i bambini facevano i birbanti.

Il laboratorio di ricamo 

Fino agli anni ‘60 erano poche le ragazze che continuavano gli studi dopo le elementari. I genitori ritenevano le città piene di tentazioni, quindi le tenevano in paese sotto stretta sorveglianza.

Naturalmente, considerati gli impegni lavorativi, non potevano essere sempre presenti e allora le mandavano dalle suore, dove imparavano l’arte del ricamo e le regole del vivere civile.
Vi si andava quasi tutto l’anno, dalle nove del mattino fino alle quattro e mezza di pomeriggio, con un intervallo dalle dodici alle due per poter rientrare a casa e mangiare. Si pagava per poter frequentare, dapprima trecento poi cinquecento e infine mille lire. Una suora si dedicava completamente alle ragazze.
O
ltre al ricamo, che permetteva loro di preparare il corredo per sposarsi, si leggevano libri religiosi e si partecipava alle prove per i cori delle messe domenicali.
Inoltre, ci si divertiva tanto organizzando delle gite nei dintorni e qualche volta persino più lontano.

Le giovani più brave e particolarmente dotate per questo tipo di lavoro, una volta realizzato ciascuna il proprio corredo, lavoravano per terzi, su ordinazione. Le richieste erano numerose e per lungo tempo questa attività che, dopo il laboratorio si continuava a casa, ha rappresentato una buona fonte di reddito.

 

Per quarant’anni un raggio di sole ha illuminato questo paese, ha scaldato il cuore dei nostri bambini, ha frenato l’esuberanza dei nostri ragazzi: quella luce si fa volto, ha un nome..Sorangela.
Di origine pugliese, proveniente da Ostuni (Brindisi), suor Angela Monopoli, giungeva a Conflenti giovane, alla prima esperienza di apostolato come “maestra di asilo” dopo aver preso i voti.
Qui, all’ombra del Santuario della Madonna della Quercia di cui, con le consorelle del Cottolengo, era attenta custode, con pazienza e umiltà, col viso illuminato da un rassicurante sorriso, ha accolto, preso per mano, coccolato, sgridato, stretto al cuore, anno dopo anno tutti i bambini di Conflenti dai tre ai sei anni, per decenni!

Il magistero cristiano della gentile Sorangela non si limitava però solo alla cura dei bimbi che piangenti si distaccavano dalle mamme per temprarsi alle difficoltà del vivere nell’asilo del Santuario.
Lei era una guida spirituale e morale nelle successive fasi della crescita: da giovani si tornava a confidarsi da lei, da sposati ancora si faceva riferimento ai suoi saggi consigli per risolvere i problemi della vita di tutti i giorni.
Non aveva generato figli, ma era mamma di generazioni e generazioni! Suora piena di vitalità, gioiosa. Chi non ricorda gli spettacoli all’aperto che mobilitavano tutta la popolazione per la “festa della mamma”?

Dal palco allestito sul sagrato fanciulli, bambini, ragazzi si alternavano in spettacoli teatrali magistralmente preparati dalla brava suora, tenace instancabile regista delle spontanee esibizioni di piccoli attori, regalando ai genitori, amici, conoscenti un’ora di divertimento: si riportavano sulla scena momenti di vita, valori, costumi, usanze.Sorangela, la saggia, la mamma delle mamme per decenni e decenni è stata considerata una conflentese, forse i più giovani neanche sapevano che non era nata qui, che prima non c’era e nel 1951 era venuta da lontano! Sorangela era della comunità, persino aveva contaminato la sua originale inflessione col nostro dialetto.

Lei ha lasciato un’orma indelebile nel nostro paese, il suo passaggio ha segnato generazioni, il seme dei suoi insegnamenti ha messo radici nel cuore di figli e genitori per circa mezzo secolo. Col volto sereno e fare operoso la mite suor Angela ha segnato un’epoca.

Era qui tra noi negli anni duri e faticosi della ricostruzione, era qui quando i conflentesi emigravano in terre lontane, era sempre qui a registrare la vita dei compaesani e a piangere per le sventure, era sempre qui con noi nel bene e nel male, sempre conflentese, sempre con noi a sorridere e piangere. E ora che è volata in cielo, tra gli angeli come lei, ha desiderato che la sua salma restasse nel nostro cimitero, affetto tra i nostri affetti. A ricordo sempre presente della nostra unica, insostituibile sorella. Sorangela è di Conflenti, e resterà per sempre nel cuore dei conflentesi.

Giuliana Paola Carnovale