Intorno alla metà del secolo scorso, a Conflenti ha operato una filodrammatica organizzata dai fratelli Francesco, Nicola e Anselmo Butera. Questa famiglia si distingueva per l’estro in vari campi artistici, dalla musica alla pittura e alla recitazione. Nicola e Francesco erano due bravi musicisti; il primo suonava la tromba, il secondo la fisarmonica, la chitarra e l’armonica a bocca. Francesco era anche poeta e soprattutto pittore: a lui si devono tante delle madonne e santi dipinti nelle cone e nelle chiese di Conflenti. La sede della filodrammatica era a Conflenti Superiore, al piano terreno di una casa situata in fondo a Via Marconi dove terminava quell’unica strada del paese. Lungo una parete del locale, che era anche sede del CRAL, sorgeva il palcoscenico su cui periodicamente gli attori rappresentavano commedie e drammi, sollecitando alternativamente negli spettatori il riso e il pianto.

Le prove si facevano sempre dopo cena, due o tre volte alla settimana, e vi potevano assistere gli ultimi avventori rimasti. Gli attori, esclusivamente maschi e casalini, con innato talento sopperivano alla mancanza di tecnica con la volontà e la passione. Tra essi, oltre i due fratelli Nicola e Francesco e il figlio di quest’ultimo Enzo, ricordiamo: ‘Ntoni e Mariano (perfetto nell’interpretazione di Cristo crocifisso),  Alfonso Vescio (interpretava le parti femminili), Benito Giudice, Gino Colosimo, Cicciu Cimino di Peppino. Tra le opere rappresentate  ricordiamo: Ali spezzate,  Sublime vendetta, Guerino detto il Meschino. Qualche volta la compagnia andava in tournée… a Conflenti Inferiore.

Oltre agli spettacoli da palcoscenico, i fratelli Butera organizzavano le farse di carnevale, con colorate sfilate per le vie del paese. Il divertimento era totale specialmente per i bambini, ma, come si dice, a carnevale ogni scherzo vale, e non venivano risparmiati i comportamenti anomali delle persone che, riconoscendosi nei versi mordaci dei farsari, chiudevano balconi e finestre al loro passaggio.

 

DI Antonio Coltellaro

Per i ragazzi degli anni ‘50 a Conflenti jire aru mastru era una prassi consolidata. Ci si andava di pomeriggio, perché la scuola era ormai diventata obbligatoria e quindi la mattina era ormai impegnata.
U Mastru era colui che aveva un sapere consolidato e una attività artigianale in proprio. I ragazzi, ma molto più spesso i genitori per loro, sceglievano un mestiere da intraprendere e il pomeriggio andavano presso la bottega del mastro prescelto.
Una volta l’apprendistato iniziava molto presto, dai sette anni in su. Non tutti venivano accettati. Non era facile essere assunti, bisognava farsi raccomandare e corteggiare molto a lungo i mastri per riuscirci.

Jire aru mastru non era solo una antica tradizione, ma aveva anche una funzione sociale. Oltre a imparare un mestiere, non si finiva sulla strada ma soprattutto si imparava a stare al mondo e questo in una società gerarchica e chiusa, dove non c’era la possibilità di scalare socialmente posizioni, era molto importante.
Dal mastro si imparava la vita, ad accettare la gerarchia, a pensare che le cose stavano in un certo modo e non si potevano e dovevano cambiare, perché funzionavano così.

Ogni mastru aveva un discreto numero di apprendisti, cui avrebbe col tempo tramandato il suo sapere artigianale.
All’inizio si faceva poco o niente. U Mastru tastava la pazienza e l’abnegazione del discepolo, solo pulizie e qualche commissione. Poi, se si superava la prova, venivano affidati i primi lavoretti e lentamente a seconda dell’anno d’arrivo e delle capacità si cominciava a creare una gerarchia; lentamente si avanzava sino a quando imparato il mestiere si diventava summastru e ci si preparava al gran salto: per mettersi in proprio.
Ovviamente U Mastru pensava pure a non armare troppo quella poi sarebbe diventata la sua concorrenza e non insegnava tutti i segreti.
Di pagamenti non se ne parlava proprio; qualche regalo i ragazzi lo ricevevano direttamente dai committenti quando consegnavano il prodotto finito. Solo in occasione della festa patronale, era consuetudine, che U Mastru distribuisse un pó di soldi ai propri discipuli.


Vasciu,
cioè a Conflenti inferiore non esistevano cestai e barilai e i mestieri più diffusi erano: varviari (barbiere), scarpari (calzolai) malgrado si scarpe in giro se ne vedevano davvero poche, custulieri (sarti) per uomo e per donna, falegnami, chiancari (macellai), forgiari (fabbri), quadarari (stagnini) e stranamente, per lo stesso motivo degli scarpari, anche riuggiari (orologiai)

Tumasi ‘e Betta u custulieri

Fra tanti mastri c’era a Conflenti un famoso sarto: Tommaso Roperti (Tumasi ‘e Betta) il papà del nostro amato Professor Corrado.
A quei tempi i custulieri avevano un gran da fare, i vestiti confezionati erano molto rari e costavano troppo. Ognuno comprava la stoffa nei negozi di panname e poi il sarto con il suo lavoro di taglio e cucito, con tanta pazienza, confezionava vestiti per tutte le taglie e tutti i gusti.

E lo stesso faceva anche la sarta, anch’essa figura molto popolare. Tumasi ‘e Betta era però tanto bravo che cuciva per uomo e donna. I primi vestiti già confezionati a Conflenti iniziarono a vedersi nell’immediato dopoguerra, quando iniziò la distribuzione di viveri e vestiti a cura del centro di cultura e quando iniziarono ad arrivare con frequenza pacchi dagli emigrati per chi era rimasto a Conflenti. Ovviamente potete immaginare il gusto e i colori americani e le misure mai precise, ma di fronte alla estrema povertà alcuni non potevano di sicuro mettersi a storcere il naso.
Ancora per molto tempo, comunque, chi poteva permetterselo e, aggiungiamo noi, anche chi non poteva, almeno per le occasioni importanti, continuava a rivolgersi ai nostri mastri custulieri.

 

Tumasi ‘e Betta era conosciutissimo per il taglio geometrico che aveva appreso presso “L’unione Scuole di Taglio Italiane” di Napoli, diretta allora, nell’anno 1922, dal prof. Ignazio Dainotti.
Al termine del corso, lo stesso prof rilasciò al giovane allievo il diploma, che il figlio Corrado ha lasciato tuttora nella vecchia bottega del padre, nello stesso posto dove lui l’aveva posto.
I discipuli che sono passati dalla sua bottega per imparare il mestiere sono stati tanti.
E molti si sono affermati col tempo anche fuori Conflenti, tra essi vogliamo ricordare per la loro bravura, i fratelli Peppino e Alfredo Aleni che a Milano sono diventati abbastanza famosi.

 

                           Dal libro di A. Coltellaro: Novecento Conflentese

A circa metà di Via Marconi, su un’alta e ampia scalinata, scavata nel costone collinare per compensare il dislivello tra il piano strada e la quota superiore, sorge il Municipio.
Il sito è stato deciso dal primo Sindaco del paese Nicola Butera, eletto alle prime elezioni della Repubblica.


Poiché l’amministrazione comunale risiedeva nella casa privata di una delle famiglie più facoltose di Conflenti Inferiore, agli estremi opposti di Conflenti Superiore (il Casale),
il Sindaco giudicò opportuno dotare il Comune di un apposito edificio e di ubicarlo nell’intervallo territoriale dei due plessi che costituiscono il borgo.
La centralità del Municipio ha un forte valore simbolico e politico importante per la storia di Conflenti,  il cui nome plurale (in dialetto evidenziato dall’articolo: i Cujjìenti) svela la sua originaria divisione in due realtà autonome, che per la vicinanza geografica, come spesso succede, sono state scenario di collaborazione e scambi ma anche di rivalità e malcelati antagonismi protrattisi anche dopo l’unificazione.


Il Sindaco Butera pose le fondamenta senza riuscire a realizzare il Municipio nei suoi tempi amministrativi, ma la sua collocazione, appositamente scelta, documenta i valori conferitigli di unità del paese e di parità della popolazione nei confronti del potere politico.  

 

 

 

  • A lanterna manu ari cecati. Dare qualcosa a qualcuno che non può o non sa utilizzarla.
  • A ragiune è di fissi. Si dice di chi sostiene una tesi, senza cercare di capire le ragioni dell’altro.
  • U sangue un è acqua. I legami di consanguineità o di parentela sono forti.
  • Parra quannu piscia ra gaddrina. È un invito a stare zitto.
  • Mu te vija riunnu, erremu e spaturnatu. È una maledizione.  Che tu sia errante, sbandato.
  • Mu te vija Ecatu! Che tu sia maledetto!
  • Cuntiantu cumu na pasqua. Felice al massimo.
  • Spacchiate a vucca. Rinfrescati lo stomaco, la bocca. (Comincia ad assaporare i cibi).
  • Tiampu ce vo, ma te cupu. Dammi tempo, prima o poi riuscirò a farlo.
  • Jettare l’anima, u sangue. Darsi molto da fare per raggiungere uno scopo.
  • Lassare all’urmu. Lasciare all’olmo. Nel gioco di carte indica qualcuno che resta senza bere.
  • A junta a junta. A poco, a poco  (cioè tanto quanto entra nel concavo delle mani unite).
  • Un coglie a nu stagliu. Persona incapace di fare qualsiasi cosa.
  • Se fare a cruce ccu ra manu manca. Restare allibito
  • Mamma Ciccu ma tocca; toccame Ciccu ca mamma vo. Espressione usata da chi finge di non volere qualcosa, ma ha un grande desiderio di averla.
  • Puru i pulici tenanu a tusse. Si dice quando una persona incompetente esprime la sua opinione su un argomento che non conosce.
  • Te fazzu u culu tantu! Espressione minacciosa per dire che, se non desisti di fare qualcosa, ti darò un sacco di botte.
  • Diu mu ne scanza e libera. Dio ci protegga da un qualcosa che ci potrebbe causare danni.
    Spartire u suannu. Volersi un gran bene.
  • A scarrica varrili. Addossare le responsabilità dall’uno all’altro.
  • Mancu li caniCosa terribile che non si augura neanche ai cani.
  • Se rispetta ru cane pe amure d’u patrune. Si rispetta uno per merito di altri.
  • I sordi fanu venire a vista a ri cecati. I soldi hanno qualcosa di miracoloso.
  • Prima caritas pue caritatis. Prima si pensa al proprio utile, poi a quello degli altri.    
  • Mi s’affuca ru core. Soffoco!
  • Mi se ngrizzulanu i carni.  Ho la pelle d’oca
  • Na botta a ru circhiu e una a ra vutte. Sapersi barcamenare.
  • Quannu u diavulu t’accarizza vo l’anima. Diffida dalle moine.
  •  Spari ccà e ccuagli ddrà! Parli a vanvera.
  • Sugnu rimastu contiantu e gabbatu. Sono rimasto fregato.
  • A ra ntrasata. All’improvviso.
  • Cumu u viantu. Velocemente.
  • Cumu nu tirri. Come una trottola.
  • A nu mentre. Ad un tratto.
  • Nu titi….  n’ugna. Un po’.
  • Dduve arrivu, chiantu a cruce! Dove arrivo, mi fermo.
  •  Janca e russa. Ben colorita.
  • Vrunnu vrunnu. Nitido, ben pulito.
  • Mmucca. In superficie.
  • ‘Ncapu. In testa, sopra.
  • Nso qquantu. Anche un po’.
  • Me sugnu sbinnimatu. Sono rimasto al verde.
  • Sugnu ntustatu. Mi sono raggelato.
  • Jettava fuacu! Era furente.
  • Me sugnu cannilijiatu. Mi sono scottato.
  • Faccia e frunte. Dirimpetto.
  • Mpressa, mpressa. Di fretta.
  • T’a cuanzi cumu vue. Te l’aggiusti come ti pare.
  • Quannu rinci, quannu ranci. Quando troppo, quando niente.
  • Petrusinu  a ogni minestra. Impiccione. Qualcuno che mette il naso dappertutto.
  • Ti cce mangi a panata. Sei d’accordo con lui.
  • Ciuatu, anchi a vucca. Sempliciotto, te la bevi.
  • All’iartu. In salita.
  • A ru pinninu. In discesa.
  • A ru ‘mparu. In pianura.
  • A ra ricota. Al rientro, al ritorno.
  • A ra mmerza. A rovescio.
  • Acu e spacu. Per filo e per segno.
  • Aiu vistu i stiddri! Ho visto le stelle, dal dolore.
  • A ru furnu e za Maria. Al cantuccio.
  • A r’ammuzzu. Senza distinzione, ad occhio e croce, all’incirca.
  • A ra rasa. Vicino a…
  • Dduve viaddri. Da nessuna parte.
  • A ra sirena da notte. Al freddo della notte.
  • Ne sugnu vurdu. Non ne posso più. Sono sazio.
  • Uagliu ara guaddrara. Fare una cosa inutile.
  • Abbiviri nu cardune. Fai una cosa inutile.
  • Abbiviri e gaddrine quannu chiova. Fai una cosa inutile.
  • Capupinninu. Capovolto.
  • Diu pruvvida e Maria prega. A tutto c’è un rimedio.
  •  Ammuccia ammuccia ca tuttu para. Nascondi inutilmente, prima o poi la cosa si vedrà o si saprà.
  • N’acquiceddra e San Giuanni. Una medicina che non ha effetto. Panacea.
  • L’acqua vuddra e ru puarcu è ara fera. Fai progetti campati in aria.
  • Mi nne para fforte. Mi dispiace dare. Non riesco a farlo.
  • Ppe ttie, tuttu u munnu è frittule. Per te è tutto facile.
  • Pari spasulatu. Sembri un derelitto.
  • Pari nu cane ligniatu! Sembri un cane bastonato.
  • Cchi Mmerica! Che cuccagna!
  • Vatta re zanne. Muore di freddo.
  • Assittatu a na bona seggia. Ben sistemato.
  • Tiani na manu longa e una curta. Vuoi ricevere senza dare.
  • Cumu suani, abbaddru. Mi adatto alle circostanze.
  • Te canusciu e quannu eri cirasu. Ti conosco.  So di che pasta sei fatto.
  • Cacarune. Timido.
  • Cacare i piccati. Pagare le colpe.
  • T’è venuta a cacareddra? Hai avuto paura?
  • Sulu cumu nu cane. Abbandonato da tutti.
  • Pariti cane e gattu! Si dice di persone che non vanno d’accordo, si odiano.
  • Cangiare l’uacchi ppe ra cuda. Cambiare una cosa di valore con un’altra scadente.
  • Tenire a cannila. Si dice quando si assiste ad un convegno amoroso.
  • Cantare a diana. Fare la fame.
  • Cacciare a capu fore du saccu. Prendere baldanza, ringalluzzire.
  • Parire na carcarazza. Insistere in chiacchiere moleste e sgradevoli.
  • Fare a carità pilusa. Si dice della carità interessata.
  • Tirare a carretta. Mandare avanti una cosa, la famiglia. Addossarsi le maggiori responsabilità.
  • È na menza cartuccia. Avere poca potenza, servire a poco.
  • Partire a cavaddru e tornare a pede. Partire con grandi ambizioni e non concludere nulla
  • Po fare chiovere e scampare. Si dice di una persona molto potente.
  • Fare na cisina. Fare una strage.
  • Si nu citrualu! Si dice di una persona che non capisce niente.
  • Citu e musca! Invito a fare silenzio.
  • Cridere aru ciucciu chi vola. Essere credulone
  • Curnutu e mazziatu. Lo è colui che dopo aver subito un danno, ne subisce un altro.
  • Chine a vo cotta e chine cruda! Desideri e pretese più disparati
  • Vasciare a crista. Perdere la superbia.
  • Azare a crista. Pavoneggiarsi.
  • Mintire unu ‘ncruce. Affliggere qualcuno.
  • Jocare a cuda. Fare brutti scherzi, tradire.
  • Ccu ra cuda mmianzu ‘e gambe. Essere come un animale bastonato.
  • Cugliunjare. Prendere in giro.
  • Si culutu. Hai fortuna.
  • Liccare u culu. Adulare senza dignità.
  • Cumannare a bacchetta. Comandare con troppa autorità.
  • Fare u covatusu. Comportarsi male.
  • Mastru Nicola domani dijuna. Si dice di una cosa che viene rimandata sempre.
  • A ra faccia tua.  A tuo dispetto.
  • Fare due facce. Chi si comporta sempre in modo diverso.
  • Fare na fera. Fare un regalo o fare un casino, una cagnara.
  • Fare u fissa ppe un jire ara guerra. Fingersi stupido per non fare qualcosa.
  • Scappare cumu nu frugulu. Fuggire come un razzo.
  • Fuacu ‘e paglia. Iniziare una cosa con grande passione e non concludere.
  • U juarnu d’u cunnu. Un tempo che non verrà mai.
  • Scarminiare a lana.Occuparsi dei fatti altrui.
  • Fare calare u latte. Far perdere la pazienza, far cadere le braccia
  • Ppe un sapire né lejere né scrivere. Pur non sapendo leggere e scrivere … ho risolto …    
  • Chi te sape, te rape. Chi ti conosce, ti ruba,
  • Ccu sti chiari e luna. Indica una situazione difficile.
  • Mammaluccu. Sciocco, tonto.
  • Largu de vucca, strittu de manu. Generoso solo a parole.
  • Se pigliare u jiritu ccu tutta a manu.  Approfittare della generosità altrui.
  • Essere na menza cuazetta. Si dice di un individuo mediocre.
  • Luangu cumu na missa cantata. Una cosa che dura tanto.
  • Avire u mussu. Avere il broncio.
  • Me ncriscia! Mi secca. Non ne ho voglia.
  • Essere ntruscia. Essere in miseria, al verde.
  • Patrune e sutta. Padrone e sotto. Quando in un gioco si può fare ciò che si vuole.                   
  • Tinire i pulici. Non riuscire a stare fermo.
  • Si du quagliu. Essere poco affidabile.
  • Scrusciu e scupa nova. Si dice di uno che inizia un nuovo lavoro e si dà molto da fare.
  •   Azare a cuda. Alzarsi per andarsene.
  • Aza fama e va metere. Fatti conoscere e la gente ti chiamerà.
  • Jettare fele. Morire di rabbia; d’invidia.
  • Essere nu lavativu. Persona che ha poca voglia di lavorare.
  • Essere nu mpizzaliti. Essere un attaccabrighe.
  • Nchiatrare d’u friddu.  Gelare per il freddo.
  • Nessunu nasce mparatu. Nessuno nasce esperto.
  • Oje a uattu. Fra una settimana (si conta anche il giorno di partenza).
  • un d’è pane pe ri dienti tue. Non è cosa che fa per te.
  • E vatule un inchienu a panza. Le chiacchiere non ci danno da mangiare.
  •  Fare nu quarant’uottu.  Provocare una grande confusione.
  • Fare u saputu. Chi vuol dimostrare in ogni occasione di sapere tutto.
  • A ra scarsa. Lavorare senza pasto.
  • Avantate viartula mia ca si sciancata. Si dice a chi si vanta senza essere in condizione di fare.   

            I difetti dei conflentesi

De iddru (di lui)

  • Il taccagno (spiluorciu): tene na manu longa e una curta!  Un mangia ppe un cacare;            Strittu a ra farina, largu a ra caniglia,   
  • L’ afflitto (L’affrittu): pare n’anima d’u purgatoriu.                
  • Il fortunato: cumu cade, cade a ru mparu.
  • Il perseverante: circa l’acu intra ‘u pagliaru!
  • Il rompiscatole (rumpicugliuni):  va stuzzicannu i cani chi dormanu!
  • Il pignolo: va truvannu ‘u pilu intra l’uavu!
  • Lo stravagante (stravacante): spara ccà coglie ddrà.
  • Il curiosone: va vidiannu quale furnu fuma.
  • Lo sfiduciato: dduve arrivu chiantu u palu!
  • Lo spiritoso: puru i pulici tenanu a tusse!
  • L’impiccione: petrusinu ogne minestra.
  • Il malato immaginario: tene ru male du ‘u ddo, mangiare se e fatigare no!
  • L’opportunista: quannu u gattu un c’è, ‘u surice abbaddra!
  • Il credulone: crida aru ciucciu ca vola.

De iddra (di lei)

  • La saputella: scrusciu e scupa nova!
  • La pessimista: pare  ‘na piula!
  • La riservata: ammuccia, ammuccia, ca pare tuttu.
  • La timida (spagnusa): se fa russa cumu na paparina.
  • La bellona: pare na rosa spampulata.
  • La rugosa (arrappata): pare na trigna sicca.
  • La magrissima (lenta, lenta): pare nu palu vestutu.
  • I suoi vestiti sono sgargianti? Pare nu ciucciu d’i zingari.
  • Le sue calzature sono inadeguate all’abito? È vestuta cumu ‘na rigina e scauza cumu na gaddrina.
  • Si muove con lentezza? Scamacchia ova!

 

                                           Di   A. Coltellaro

 

La fontana di Pometta è sicuramente quella più conosciuta e frequentata di Conflenti, dove tutti ancora vanno a prendere l’acqua e tutti si fermano a ristorarsi durante le consuete  passeggiate.
Eppure Pometta fino al 1925 non esisteva, prima di allora infatti non c’era via Marconi e la sorgiva che arriva oggi a Pometta quasi sicuramente alimentava la fontana di Frontera, resa immortale da Butera, che si trovava un centinaio di metri più in giù, sulla strada che dall’Immacolata sale a Conflenti Superiore.

Con la costruzione della nuova importante arteria che congiungeva più comodamente le due parti del paese, la vecchia sorgiva fu captata e indirizzata nella nuova fontana sulla strada.
Eppure benché relativamente “giovane” la nuova fontana è diventata ben presto un luogo simbolo di Conflenti, posta a metà strada tra Conflenti Sottani e Conflenti Soprani, per lungo tempo ne ha quasi rappresentato il confine, una sorta di zona neutra
Quante ne ha viste Pometta!
Come ci racconta magnificamente A. Coltellaro. Un tempo per tutto il giorno, sino all’imbrunire, l’andirivieni era continuo.

Erano soprattutto le donne con vozze e barili che venivano a rifornirsi di acqua per gli usi quotidiani. In alcune ore ce ne erano così tante che bisognava mettersi in fila, e se qualcuna talvolta faceva la furba scoppiava il finimondo.
Urla e strepiti a non finire e le corna messe sulla via.
Quando ancora non c’era la televisione era lì che ci si incontrava e si raccontavano i fatti del giorno e quelli dei giorni precedenti. E questi fatti cambiavano sempre ogni volta che venivano ripresi, tra aggiunte e variazioni la storia alla fine diventava un’altra cosa. Lo scenario cambiava secondo le ore; c’erano quelle di calma e quelle di punta, quelle delle ragazzine e quelle delle signore sposate. Ma era sempre l’occasione per parlare e ritrovarsi.
Quanti amori sono nati intorno alla fontana!  Era il luogo dei primi appuntamenti. Uno sguardo, un sorriso, qualche parola rubata tra un sorso e l’altro. Erano quelli i momenti della grande sfilata.

Le donne, qualsiasi cosa portassero sul capo, barile o altro, sapevano con grande perizia dare risalto alla propria femminilità. Il procedere lento ed elegante, il busto eretto, il portamento altero, conferivano loro un non so che di regale, che sprigionava una forte carica erotica. Della cosa esse erano ben coscienti e fingendo di ignorare di essere osservate, sfruttavano tutte le loro arti per evidenziare ancor di più le loro curve.

Per tutte, fimmine schette e maritate era una grande occasione da sfruttare, per sentirsi belle ed essere osservate e per ricordare d’essere, oltre che madri e mogli, anche donne. Si avvertiva nell’aria, tra uomini e donne un sottile legame di complicità. Dietro un apparente sentimento di indifferenza, si celava un godimento pieno dell’avvenimento. Era un momento dolce e delizioso da vivere appieno e assaporare lentamente.
Col finire degli anni ‘60, l’acqua arrivò in ogni casa e dopo un po’ arrivò anche la televisione, le abitudini cambiarono e la fontana perse questa sua funzione “sociale”.

E allora anche Pometta si è nuovamente adeguata, cambiando ancora una volta posizione, causa il nuovo sbocco di via Butera.
Ora Pometta è al fianco del vecchio lavatoio, più comoda e spaziosa e se è vero che non c’è più la confusione di un tempo, qualcuno con cui scambiare due chiacchere lo trovi sempre e l’acqua è più buona che mai.

 

 

Liberamente ispirato da A. Coltellaro.

 

Passeggiando su Via Marconi, in prossimità del Municipio e accanto alla nostra amata fontana di Pometta, si può ammirare una vecchia costruzione che fa ormai parte del paesaggio storico paesano.
È uno di quei luoghi della nostra storia, che pazientemente restano lì, a testimonianza del nostro passato e attendono che qualcuno si ricordi di loro e vada a curiosare.
Stiamo parlando del vecchio lavatoio, che a dire il vero negli ultimi anni è stato un po’ modificato e adattato, eliminando alcune vasche per fare spazio ad un bel tavolino in pietra verde con comodi sedili.


Entrandoci e curiosando ci viene quasi da sorridere se pensiamo che questo luogo oggi meta di chi cerca un po’ di tranquillità, giovani coppie o ragazzini che cercano di sfuggire agli occhi indiscreti degli adulti, un tempo era pieno di rumori, voci, urla e sicuramente confusione. C’era tanta vita, dilagante, travolgente.

“I panni sporchi vanno lavati in casa”, dice un vecchio detto, eppure a dispetto di questo vecchio adagio non sempre è stato così.
Perché, mentre oggi, il bucato si fa comodamente tra le mura domestiche e abbiamo a disposizione moderne lavatrici, veri concentrati di tecnologia, per cui non ci resta che infilare i panni nel doblò, scegliere il programma, schiacciare un pulsante e poi tirarli fuori, magari già asciugati. Tutto in totale solitudine, senza bisogno di aiuto, un tempo non era così, anzi!! 

Senza voler tornare troppo indietro, già ai tempi dei nostri nonni, era molto diverso.
Lavare i panni era una faccenda impegnativa, rumorosa e pure molto “affollata”.
Coinvolgeva molte persone, era una autentica “faticaccia”, durava molto tempo e soprattutto veniva svolta all’esterno. In una primissima fase lungo il corso dei fiumi e poi quando si decise di rendere più agevole il lavoro delle donne, con la costruzione dei lavatoi, in paese.

A vucata si faceva più o meno ogni quindici giorni, ma nelle famiglie più povere, a causa della penuria di vestiti e biancheria era necessario farla più frequente.


Lavare la biancheria era un autentico rito che durava due giorni e aveva bisogno di tanto olio di gomito.
Inizialmente, come abbiamo detto, la vucata si faceva al fiume, trasportando la biancheria in grandi ceste, si cercava un posto abbastanza comodo, na bella gorna, e una grossa pietra abbastanza levigata, da usare come stricaturu. Quindi si bagnavano i panni, prendendosi cura di “stricare” con più attenzione quelli particolarmente sporchi, utilizzando anche sapone fatto in casa, questa operazione era chiamata assamerare.


Concluso questo primo step, i panni venivano riposti con cura nelle ceste,
ncuveddrati, e riportati a casa, ovviamente il trasporto avveniva portando queste ceste in equilibrio sulle teste, appoggiate sulla curuna, un telo di stoffa arrotolato a mo’ di cerchio che serviva da spessore e a stabilizzare il peso. Poi a casa si metteva la lissia, un preparato di cenere bollita in acqua, che si versava sull’ultimo panno vucaturu steso mmucca, e cioè in cima alla cesta.
Quest’ultimo panno doveva essere di lino, perchè lascu ossia a maglie larghe.  Quindi si lasciava riposare per tutta la notte affinché la lissia penetrasse lentamente tra i panni e il mattino seguente si toglieva e mmucca il residuo di cenere e si riportava la cesta coi panni per il risciacquo.  Quando i panni erano candidi, vrunni vrunni, e ben lavati si torcevano e si stendevano al sole.


Queste operazioni, che con la costruzione dei lavatoi, si svolgevano ormai in paese alleggerendo il lavoro delle massaie, non erano  fatte singolarmente ma in gruppi, così ci si poteva aiutare, a torcire e mpugliare il panname più grande.  In questo modo il lavoro sembrava meno duro anzi diventava occasione di socialità, per cantare, chiacchierare e informarsi dei fatti del paese.
Finito tutto, poi in casa si sistemava la biancheria nei cassetti del cummò o intra a cascia, avendo cura di mettere tra i panni un pò di spicanarda, lavanda, per rendere tutto più profumato.

Avete riconosciuto il luogo della foto? Dove si accedeva da quelle porte e da quelle scale? Ma certo: alla vecchia posta. Il 23 era l’ingresso riservato agli addetti ai lavori, mentre il 25 era l’accesso dei clienti. Tutt’oggi il muraglione sottostante è chiamato dagli adulti: u muru da posta. Molti ragazzi continuano a chiedersi perché, dato che l’ufficio postale attualmente si trova vicino pometta e di fronte al Municipio, abbia questa denominazione, ignari del fatto che un tempo la posta era proprio sopra quel muro. Vi si accedeva dalla scala laterale, come vediamo in foto, o dalla scalinata del lato opposto.

L’interno della posta vecchia

All’interno, il locale mantiene intatta la sua struttura di un tempo. Le pareti rosa e bianche. Le mura disegnate e utilizzate come carta per fare i conti. Lo sportello attraverso il quale l’impiegato comunicava con il cliente. 

L’ufficio postale venne istituito il 1885 a seguito di una richiesta che il Delegato Regio, inviato in qualità di commissario prefettizio a seguito dello scioglimento del Consiglio Comunale, fece al Prefetto della Provincia nel settembre del 1883.

 

 

 

 

 

 

 

Il Delegato ne aveva in precedenza già fatto richiesta al Direttore Provinciale delle poste, e per questo aveva deliberato e accantonato la somma di 210mila lire dal bilancio comunale. Questa la motivazione:” Conflenti fa molta esportazione di vini, cera lavorata, castagne e bozzolo. Non meno di 30 lettere al giorno arrivano e si riscontra un servizio di vaglia e raccomandate di circa 100mila lire all’anno e inoltre l’emigrazione è imponente, sono circa 500 e importano nel comune più di 100mila lire all’anno di denaro sonante. Un regolare Ufficio Postale dunque sarebbe indispensabile ad emancipare Conflenti dagli uffici di Soveria e Martirano.

Quando, subito dopo, l’Ufficio Postale venne istituito il primo direttore fu Don Gabriele Colosimo, che era un parroco, ma in quei tempi di sola fede non si viveva e tanti, forse troppi, erano i parroci che gravitavano intorno al Santuario.Don Gabriele Colosimo, adibì i locali sottostanti la sua abitazione a posta. Tra i suoi successori ricordiamo Don Mico Cimino, che collaborava con il fratello Don Ciccio, mentre il postino era il casalino Carlo Villella (Carru u postieri). Raggiunta la maturità, cominciò a lavorarvi come sportellista anche Michele, figlio di Mico. All’inizio la posta veniva distribuita due volte al giorno e, alla sera, veniva data direttamente all’ufficio postale. Era molto frequente l’arrivo di pacchi con roba usata. La posta per le campagne  veniva a prenderla Santorelli che poi la distribuiva in loco oppure si lasciava alla putiga di Ntoni e Mariano da dove veniva poi ritirata.
Altra figura emblematica relazionata alle poste è Pasqualina Stranges. Era una delle poche conflentesi a saper leggere e scrivere e per questa ragione passava le sue giornate all’ufficio postale ad aiutare gli analfabeti a compilare documenti e ritirare la pensione. Quest’edificio fu sede dell’ufficio postale fino a metà degli anni ’50, periodo in cui venne trasferito in via Marconi, nel luogo in cui lo conosciamo oggi. E continuò a essere gestito da Mico, Ciccio e Michele Cimino. Quando il padre e lo zio andarono in pensione, Michele Cimino salì di grado e ne divenne direttore. Lavorava insieme a Enzo Maida e Luigi Bartolotta. E dopo che i primi due andarono via, Bartolotta divenne direttore. Dal 1982 a oggi il direttore è il conflentese Roberto Marotta.

 

 

 

In questo viaggio nel tempo che vi stiamo proponendo abbiamo cercato di parlarvi dei principali mestieri che facevano i nostri nonni, alcuni di essi si sono tramandati fino ai nostri giorni, altri sono cambiati molto e altri ancora non esistono più.
Per capirli di più è necessario focalizzare il contesto generale degli anni passati, Conflenti superava i quattromila abitanti ed era difficilmente accessibile, arroccato ai piedi del Reventino con poche strade d’accesso e per di più poco agevoli.
Questo per forza di cose comportava la ricerca di una autosufficienza pressoché totale dal resto del mondo.
A questo bisogna aggiungere, per una migliore comprensione della questione, un secondo fattore fondamentale, e cioè che i mestieri che andavano per la maggiore erano sicuramente quelli più legati o comunque collegati a quelle che erano le produzioni tipiche di Conflenti.
Solo così possiamo spiegare la grande diffusione e il livello di eccellenza raggiunto da alcune lavorazioni, si pensi per es a barilai e cestai, la cui produzione di manufatti era molto richiesta considerato che la produzione di olio e vino era quella più diffusa e nelle case inoltre non c’era acqua corrente e bisognava portarla. Alla produzione di uva e vino era inoltre legato un altro mestiere che ha fatto le fortune di molti conflentesi nei tempi passati, quello del commercio del vino.

 Lo stesso discorso vale per le tessitrici e per tutte le donne che si dedicavano al ricamo, anche loro direttamente legate alla enorme attività di bachicoltura e alla ginestra che era diffusissima nei nostri campi.
Analogo ragionamento vale per la produzione di dolci tipici dei nostri mastazzulari dove finiva gran parte della enorme produzione di miele che facevano i nostri melari, o per l’arte dei mastri cerai, sempre legata all’apicoltura.
Queste produzioni avevano raggiunto un tale livello di eccellenza che non temevano il confronto di altre produzioni simili, e malgrado le difficoltà degli spostamenti, erano conosciute e venivano vendute, rompendo il nostro isolamento cronico, in molti mercati della Calabria.
Oltre a questi mestieri, particolarmente legati alle nostre produzioni agricole, ne esistevano altri un po’ più comuni, ma che comunque erano svolti in un modo molto diverso da come si potrebbe immaginare oggi.  Fravicaturi (muratori),custulieri  (sarti), mastri d’ascia (falegnami), varviari (barbieri), forgiari (fabbri) , chiancari (macellai) quadarari (stagnini), scarpari (ciabattini), riuggiari (orologiai) . 

Tutti erano completamente privi di macchine e utensili meccanici o elettrici di qualsiasi genere, avevano quindi una manualità eccezionale e inoltre operavano in spazi ridottissimi, laboratori molto angusti, spesso autentici catuaji.
Ma esistevano altre “occupazioni” che possiamo definire molto fantasiose e che comunque permettevano di vivere; è il caso del merciarualu che andava in giro per il paese con una cassetta legata al collo a vendere aghi, jiritali , spolette, spingule, pettini, pettinisse e forbici, de l’umbriddraru che vendeva e riparava ombrelli, o u seggiaru, che, ambulante girava per le vie del paese e fermandosi in ogni “ruga” aggiustava le sedie spagliate, i nivari che d’inverno sotterravano la neve in grosse buche sul Reventino e poi d’estate vendevano il ghiaccio che si era conservato,  i lattari che vendevano ogni giorno  in giro per il paese il latte fresco prodotto dai loro animali e i capiddrari che andavano in giro a comprare ciocche di capelli da rivendere per fare poi le parrucche.

Che tempi, quei tempi e quanta fantasia per vivere.

Agli inizi del Novecento non era così; esistevano solo putighe ‘e vinu o cantine, come venivano comunemente chiamati i locali dove si andava a bere un bicchiere di buon vino (ricordiamo Gianni u panettiere a Conflenti Soprani o Michele ‘e Sassina, Stella a Conflenti Sottani).
La prima svolta fu data sul finire degli anni venti da Nicola Coltellaro che, dopo aver lavorato per nove anni in Brasile come dipendente dell’azienda tranviaria a San Paolo, ritornò in paese e aprì, a Conflenti Inferiore su Via Marconi, il primo caffè di tipo moderno.


Via Marconi era la via appena aperta, sventrando praticamente in due il paese, per collegare in modo efficace Conflenti Sottani con il Casale.
Il caffè aveva due sale, l’una al pian terreno, l’altra al primo piano. In quella superiore si poteva giocare a biliardo e ascoltare la radio, per la prima volta a Conflenti.
Fu questo un avvenimento straordinario, ricorda con commozione la figlia Maria, prima donna laureata di Conflenti; se ne parlava con tale meraviglia, come oggi si potrebbe parlare d’un viaggio nello spazio. E ad ascoltarla venivano tutti: giovani, vecchi e bambini, seduti a terra o sulle scale, in silenzio come in chiesa per non perdere un suono o una parola”.

A dire il vero, a bere un caffè o a giocare a biliardo, inizialmente entravano solo pochi signori”, benché in paese ci fosse una bella e numerosa gioventù.
Poi, però, anche grazie alla continua presenza dei confinati che, durante il fascismo, erano tanti, soprattutto per motivi politici, e che nel locale avevano la possibilità d’incontrarsi e scambiarsi qualche notizia, il caffè cominciò a popolarsi e a diventare un punto di ritrovo per tutti.
Nel caffè si poteva anche leggere il quotidiano “Roma”, che arrivava ogni giorno di pomeriggio.
Si parlava di politica, ma con discrezione, attenti a non esprimere giudizi che potessero essere considerati lesivi per il regime dell’epoca.
Qualche volta ci si adeguava all’andazzo del tempo e si gridava: “Viva Mussolini” o si cantava Faccetta nera.
Il caffè, di provenienza esclusiva dal Brasile, era tostato dallo stesso proprietario; si vendevano “sospiri”, un dolce apprezzato da tutti e che la moglie Franceschina sapeva fare in maniera inimitabile.


I gelati, allora li chiamavano coni, erano prodotti direttamente sul posto e conservati col ghiaccio che i
nivari portavano dal monte Reventino. A Natale poi si vendevano dolci tipici calabresi come il classico torrone di Bagnara Calabra.
Al caffè di Coltellaro si andava anche per ottenere assistenza per emigrare negli Stati Uniti o in Australia in quanto il proprietario era rappresentante della Flotta Lauro. Spesso lui stesso accompagnava gli emigranti a Napoli o Messina da dove partivano le navi della Flotta. Agli inizi degli anni cinquanta il bar fu trasferito dall’altra parte della strada, nei locali di casa Isabella. In seguito fu venduto ad Alessandro Paola, anche lui rientrato dal Canada, che lo gestì con passione e gentilezza e lo tenne aperto fino al 2001, quando poi chiuse per sopraggiunti limiti di età.
Ancora oggi, comunque, può capitare di trovare aperte le porte del locale, anche se l’attività è cessata. All’interno di questo bar tanto amato, è come se il tempo si fosse fermato, perché possiamo ancora ammirare la macchina del gelato tenuta ancora in ottimo stato, i liquori e persino l’albero di Natale

 

 

Il portone del Parroco!. Ma d’altra parte un salotto di quel tipo meritava una piazza, e così in mancanza di una vera qualcuno se l’è inventata.

E quello spazio angusto, che era venuto fuori dal piccolo incrocio, lo abbiamo utilizzato come piazza, anche a costo di stringerci a mucchio in alcune occasioni come i comizi, che stranamente con tanti posti migliori, si tenevano proprio là.
Poi, fortunatamente, qualcuno ha pensato bene che era arrivato il momento di costruirne una vera, là vicino, e ci ha regalato Piazza Pontano. Dicevamo del portone del parroco, luogo di ritrovo e di osservazione: ti fermavi un poco e l’intero paese ti sfilava davanti. D’altra parte non potevi passare senza fermarti, era una sosta obbligata, come ad una barriera doganale, un tributo da pagare per il tuo essere del paese: più eri del paese e più tempo avevi speso al portone.

U purtune d’u paracu!

Da adolescenti tutti a stringerci a strinci vutte per entrarci tutti assieme, fino a quando non si superava il limite degli schiamazzi e vi poneva fine, silenzioso ed improvviso, dal finestrino sovrastante il getto d’acqua della za monaca.

Il limite non era dato saperlo, dipendeva dall’ora e dalla pazienza della za monaca, dall’intensità degli scossoni inflitti al portone.
Portone! Quante storie hanno ascoltato i tuoi gradini; quante pene d’amore riversate nell’orecchio confidente dell’amico; quante angosce trasferite all’altro che ti si avvicinava sempre più man mano che il racconto si faceva più struggente.
Quante storie hai ricevuto senza mai tradirle, quanti ricordi incorniciati dall’arco del tuo portale ci siamo portati dietro nel viaggio della nostra vita sotto i cieli più lontani: quante volte ti abbiamo evocato nella domanda di rito rivolta al compaesano incontrato per caso in giro per il mondo: e cchi se dice a ru purtune d’u paracu?.

 

 

               Di Franco Stranges