A pensarci oggi, ai tempi di Internet, sembra strano, ma una volta a Conflenti operavano agenti di importanti agenzie di navigazione.
Delle vere e proprie agenzie di viaggio, con uffici bene attrezzati, che si occupavano di tutto quello che era necessario per emigrare: dai biglietti, alla documentazione necessaria, alla prenotazione della indispensabile visita medica e persino del viaggio per arrivare ai porti d’imbarco.
I primi flussi migratori dalla provincia di Catanzaro documentati nei registri dell’Archivio di Stato risalgono al 1875. Quasi tutti con destinazione esclusiva Brasile e Argentina, mentre poi a partire dal 1890 si iniziano ad avere notizie di conflentesi sbarcati ad Ellis Island negli USA.
Da una relazione del Delegato Regio del 1882 si evince che già in quegli anni da Conflenti fossero emigrate più di cinquecento persone.
L’emigrazione continuò senza interruzione fino alla prima guerra mondiale portando oltre oceano tanta gente. Con la guerra e le successive leggi fasciste l’emorragia si bloccò, per poi riprendere in maniera massiccia dopo la seconda guerra mondiale con l’aggiunta di altre destinazioni come Canada, Australia e paesi del Nord Europa.
Un vero e proprio esodo che portò allo spopolamento del paese. Nei primi tempi l’ingresso in questi paesi era abbastanza facile tant’è vero che alcuni emigranti andavano e venivano frequentemente; poi, particolarmente per gli Stati Uniti, si posero molte restrizioni e le difficoltà ad ottenere il visto d’entrata aumentarono notevolmente.
Gli emigranti, quasi tutti poveri e analfabeti, all’inizio, partivano per questi viaggi un po’ alla ventura, fidandosi delle promesse ricevute e facendosi aiutare da amici e conoscenti. Non sapevano dove andavano e cosa avrebbero trovato.
E spesso venivano truffati. Sia in patria che all’estero. Se riuscivano a partire, il loro viaggio era fatto in condizioni disumane, nella promiscuità più completa spesso nella stiva delle navi.
Dopo la seconda guerra mondiale i viaggi furono meglio organizzati e, per aiutare i partenti, a Conflenti operavano quattro agenti marittimi che s’incaricavano di sbrigare tutta la documentazione necessaria per ottenere i visti d’ingresso nei paesi di destinazione. Essi erano: Nicola Coltellaro per la Flotta Lauro; Pasqualino Mastroianni per l’Italia, Giovanni Villella per il Lloyd Triestino e Nicolino Folino, u Purzianu, per i Fratelli Cosulich.

Oltre a sbrigare tutti i documenti, essi si prestavano ad accompagnare i partenti con i loro familiari alle visite mediche che venivano effettuate nei consolati di Messina, Roma e Napoli. Queste visite, molto minuziose, erano obbligatorie per tutti i familiari, anche per quelli che sarebbero rimasti in Italia.
Esse rappresentavano uno scoglio difficile da superare e alcune volte impedivano a tutti i membri della famiglia di partire insieme. Alla fine della visita veniva consegnato un libretto sanitario debitamente firmato.
Tra gli agenti marittimi quello che svolgeva a pieno ritmo e a tempo pieno questo lavoro era Giuanni ‘e Giuliu (Giovanni Villella), che ha aiutato ad emigrare moltissime famiglie conflentesi per l’Australia, soprattutto della zona Annetta- Serra d’Acino- Lisca- Passo Ceraso.
La sua attività proseguì sino a metà degli anni Sessanta, calando progressivamente, in parallelo con la diminuzione delle partenze.
Sino a qualche anno fa, sulla facciata della sua casa campeggiava l’insegna del “Lloyd Triestino” (attuale Italia Marittima).
Giovanni, nato e vissuto a Conflenti Superiore, è stato anche un personaggio molto attivo e influente nella vita politica conflentese. Segretario del partito durante il periodo fascista, è stato in seguito segretario della Democrazia Cristiana. Da buon conflentese era anche produttore di un ottimo vino.

La tradizione dei dolci tipici aru casale si perde nel tempo ed è sicuramente legata ad un’altra produzione tipica di Conflenti: quella del miele. 

Nel nostro paese nei tempi passati l’apicoltura era una pratica molto diffusa e miele e cera erano prodotti che toccavano l’eccellenza e impiegavano numerosi addetti, il miele in particolare trovava un suo sbocco naturale nella produzione di cose duci e cannarutie.

Le donne di Conflenti Soprani, dove tradizionalmente si concentrava quasi tutta la produzione, erano autentiche maestre, da centinaia di anni le casaline avevano affinato un mestiere che ad un certo punto con le mastazzola era diventato una autentica arte.

Cannarutie e cose duci venivano prodotte in grande quantità, sia per Conflenti che per gli altri paesi, dove erano apprezzatissime.

Feste religiose ma anche matrimoni e altre ricorrenze liete, erano occasione in cui questi dolci non potevano mancare, addirittura in occasioni di zitaggi e altri eventi importanti si ricorreva all’aiuto di abili mastre dolciarie, che preparavano nei laboratori e anche in loco, antesignane del moderno catering, mastazzola, buccunotti, suspiri, turdiddri, panette, cuddruriaddri, grispeddre e cuzzupe

Ancora oggi, molti conflentesi, ricordano alcune di queste maestre inimitabili: Licrizia Paola, Ida Raso e Maria ‘e Ddelia.

Oggi l’ultima casalina attiva, erede di queste indimenticate maestre, è Lina.

Lina ha setacciato per anni i mercati paesani coi suoi prodotti, conquistando un pò tutti ovunque.  E se le grispelle erano il prodotto più venduto, sono le mastazzola il suo marchio di fabbrica, il prodotto in cui l’arte sembra baciare il gusto.

Lina ancora oggi delizia i nipoti della sua bravura e dopo aver preparato l’impasto, con l’ausilio di un semplice taglierino e la sua grande manualità, continua a creare dal nulla in un silenzio quasi liturgico autentiche le sue opere d’arte: pesci, chicchi d’uva, cavallucci, fiori e tanto altro. 

 

Sono talmente belle che si fa quasi un torto a mangiarle, se non fosse che il sapore è altrettanto squisito. L’occhio ha avuto la sua parte ma passa splendidamente il testimone al gusto.

Per fortuna questa arte a differenza di altre che arrivavano dal passato non si è persa e a Conflenti ci sono ancora splendide testimonianze di questo antico mestiere, tramandando questa magnificenza che non è finita nel dimenticatoio.

 

                                    Di Giovanni Putaro

Costruzioni medievali, botteghe artigianali, fermenti di attività casalinghe e agricole e usanze popolari, fino a non molto tempo fa, conferivano vivacità e colore all’antico rione d’a Madonna’ u Ritu, particolarmente caro a me perché vi sono nata e vi ho vissuto fino all’adolescenza.
Purtroppo le insidie della vita moderna e il progettare nuove forme di costruzione senza tenere conto di quelle preesistenti, hanno in parte deturpato quella bellezza che al rione conferiva un aspetto tutto particolare, che evocava tempi antichi.

Eppure se volgo lo sguardo, rivedo tutto com’era e rivedo pure i miei vicini di casa, ognuno legato a una mania, a una attività, ad una posa particolare.
E allora ecco la chiesa col suo magnifico portale scolpito in pietra, opera di maestri scalpellini del Seicento; la monumentale scalinata i cui gradoni a semicerchio offrivano possibilità di chiacchierate ai nostri nonni; il lastricato di pietre; gli usci di legno affacciati sulle vineddre adiacenti; i balconi traboccanti di graste fiorite; le botteghe, i  negozi ricolmi di merce. U cavune…a china.

Ed ecco là, Miliuzza esperta nell’arte serica, davanti ad un’enorme quadara dove ha immerso i bozzoli e con uno scupulo di erica raccoglie i fili lucidi e continui di seta componendoli a matassa, col marito u mutu che aiuta e approva compiaciuto per la spertianza della moglie.  Ddon Micu e ddon Cicciu sempre seri e ligi al loro dovere di funzionari dell’ufficio postale che vanno avanti e indietro con carte e plichi oggetti per loro sacri e inviolabili. Ddon Nicola Fualinu sempre scontroso e borbottone per il chiasso dei nostri giochi e per un colpo sbagliato di ziparu che va dritto a infastidirlo. Mamma e zia Giorgetta che dal balcone chiacchierando vegliano su di noi e papà u miadicu Paula che fa suonare a tutto volume il suo grammofono (una rarità per quei tempi).
Piatru Rasu, coi suoi discorsi farciti di intercalari…insomma, accussì, ha capitu, oggi e domani….Giuseppe e Jennaru che ripara le scarpe e si compiace di sentenziare per proverbi! Rosa e donna Maria che all’imbrunire iniziano a chiamare le galline ….curi curi curi, e le galline che per quanto poco cervello possano avere, capiscono al volo e accorrono.

Vittoriuzzu, sempre originale per il senso spiccato dell’umorismo con cui affronta le più svariate pretese degli esigenti compratori e formidabile le trasforma in barzelletta.
Vittò, damme cinquanta lire de baccalà….e cchi te puazzu dare ccu cinquanta lire, na cuda!  Francischina de Scialampu che dal balcone chiama le nipotine e Niculina a mparinata che siacuta i bambini che vogliono raccattare il loro pallone.
E rivedo pure il ragazzo che jetta u bannu annunciando a voce alta che dduve Palinu si vendono ficazzane e cirase.
Ai fatti narrati è impresso il timbro della nostalgia, dell’emozione, nel rievocare un’epoca che non esiste più.

A ra Madonna’ u Ritu si sapeva tutto di tutti. A ruga era una grande famiglia, non c’erano segreti. Non mancavano naturalmente battibecchi, invidie, gelosie, ipocrisie, ma nel complesso si era sempre tutti uniti e pronti ad andare incontro con slancio sincero alle necessità di chi aveva bisogno. C’era la riconoscenza, la collaborazione, era sconosciuta la fredda indifferenza propria del mondo di oggi.
A ra Madonna ‘u Ritu si viveva la vita coi suoi risvolti, lieti o tristi, ma si viveva una vita a dimensione d’uomo, con calore umano, senza freddezza.

 

 

Qua ancora non sono arrivate le auto, qua ancora è tutto come centinaia di anni fa. Si nota qualche balcone rinnovato, qualche casa rifatta: ma nel complesso arcere, scale esterne, finestrine, purtelluzzi, catuaji, case attaccate l’un l’altra si tengono per mano come per raccontare ai disincantati visitatori di oggi la storia lenta del passato!
E in mezzo la fontanella antica, dove come un tempo le donne si affacciano a chiaccherare e dove l’eco del mondo in movimento e di corsa vi giunge come da luoghi remoti!
Anche i rumori e le voci che si odono sono ovattati, quasi fuori dalla realtà.

Tutte le strade portano aru chianiattu

Intorno alla piazzuola altri rioni medievali, tutti bellissimi ma le cui vineddre confluiscono tutte aru chianiattu.
Fucili, con Via Venticinquemila dal prezzo che fu pagata, i Maruatti, Trazzinu con la sua fontanella le cui acque scaturiscono dalle viscere del centro storico.
Se ti aggiri tra queste vineddre paesaggisticamente e nelle tradizioni rimaste legati al passato, provi emozioni forti, perché puoi trovare balconi ancora fioriti che ti sorridono, incontri gente affaccendata che si aggira con andare sommesso tra i vicoli di pietra e il silenzio ancestrale è rotto solo da voci umane e versi di animali.

 Un posto fuori dal tempo

U Chianiattu è un posto fuori dal tempo, che continua a mantenere intatto il suo antico splendore.
Un tempo cuore pulsante di Conflenti Soprani, con laboratori di cestai, botteghe e cantine sempre aperte, era il punto di incontro di tutti i casalini.
Data la sua meravigliosa configurazione, funge a volte da cinema all’aperto, ora come tanti anni fa, il luogo è adoperato per proiettare film sotto le stelle durante le calde serate estive.
Tutt’oggi è il set prediletto di eventi, feste e sagre che mirano a recuperare le tradizioni, perché è un posto incantato, ancorato al passato, in cui il tempo sembra essersi cristallizzato.
Entrare aru chianiattu è come arrivare in un’altra epoca.

Da secoli molte tradizioni legate alle festività religiose dettano i ritmi della vita conflentese.
L’Immacolata, festa che apre le porte al Natale, è sicuramente una di queste.
Un tempo il rituale che accompagnava questa festa (ancora oggi una delle feste più sentite dalla nostra comunità), era molto più articolato, ma grazie al lavoro di tanti fedeli è stato comunque tramandato nella sua essenza fino ai nostri giorni.

Le celebrazioni cominciavano il primo dicembre con la novena, che nei tempi passati si teneva alle prime luci dell’alba. La novena era vivamente partecipata dai confratelli della Congrega, che, con camice e mozzetta, assisi sugli scranni, animavano la liturgia con i loro canti in latino.

La confraternita inizialmente era composta solo dai benestanti del paese, ma col tempo si allargò a tutti. Intorno agli anni Sessanta Nzermu Calabria era il tenore e Brunu ‘e Piddricchia faceva il controcanto, mentre il coro, tra gli altri, era composto da Ntoni ‘e Cicciu, Giuanni Bricchiu, Durazziu, Larenzu u minutu. Alla tastiera era sempre Ntoni ‘e Scarpiaddru, mentre il coro dell’assemblea era composto da Michilina ‘a Riapulina, Rusina e Ancilina ‘e Piddricchia, Grazia ’a Zucchetta, Donna Gianna ccu ra viletta e tante altre.
Meritano tutti di essere ricordati, oltre che per il loro impegno, anche per i loro bellissimi soprannomi.
Ovviamente, il lavoro preparatorio iniziava molte settimane prima con la raccolta della legna che sarebbe poi servita ad alimentare la grande focara.

Alla raccolta dovevano contribuire tutti, dai ragazzini che armati di carriole facevano il giro delle case a chiedere pezzi di legno, ai più grandi che trovavano nei boschi pezzi di radici o tronchi di alberi caduti, per finire alle imprese boschive che si occupavano del trasporto.
Il momento clou ovviamente era e, rimane ancora oggi, la sera della vigilia.
In quegli anni la festa cominciava con la passeggiata della coppia dei paparagianni, figure grottesche di carta colorata su scheletro di canna, preceduti da Carru ‘e Puddruletta e Filice Sciambarella che suonavano i tommari, tamburo e grancassa battuta con la frusta di castagno, che dovevano sicutare puarci e ricogliare guagliuni, per la fiaccolata.
E di ragazzi ne raccoglievano tanti, ma proprio tanti, che dopo la messa partecipavano alla fiaccolata con i classici scruani mpeciati accesi.
La fiaccolata lungo la via principale, illuminata a giorno da centinaia di scruani, era accompagnata dalla banda musicale.

Al termine della fiaccolata si accendeva la focara e si bruciavano i paparagianni, costati tanti ma tanti giorni di lavoro.
La gente piano piano si radunava intorno al fuoco, dove al suono di zampogne e organetti si mangiava e beveva in abbondanza.
I più arditi ovviamente facevano la rituale capatina ai mandarini dell’orto sottostante.
La focara rimaneva accesa tutta la nottata, alimentata dai ragazzi fino alla mattina successiva, quando gli abitanti della zona offrivano loro caffè e dolci tipici.
Alle dieci, poi, cominciava la messa e la processione. Quindi ognuno a pranzo con la propria famiglia e poi pomeriggio di nuovo all’Immacolata per i giochi popolari: palo della cuccagna, tiro alla fune, pignata e lumia. Intanto la focara, non più alimentata, si spegneva e finiva la festa.

Oggi il rituale è stato per forza di cose accorciato, ma la festa viene ancora organizzata con impegno e dedizione dalla Confraternita, che cerca di conservare e trasmettere la tradizione alle nuove generazioni. Fino a pochi anni fa la Confraternita era retta dall’indimenticabile Priore, Rosario Floro, ormai scomparso, che riteniamo doveroso ricordare, perché era lui che si occupava di tutto: dagli scruani, alla legna, alle patate per finire al vino.Oggi il testimone è passato al nipote Pasquale, vera anima della festa.

 

 

I conflentesi sono stati grandi produttori di vino, ma anche grandi consumatori. Erano in tanti che possedevano un vigneto e, secondo le dimensioni, producevano piccole o grandi quantità di vino che esportavano o utilizzavano per il consumo casalingo.

Un bicchiere di buon vino accompagnava tutti i pasti ed era abitudine costante di offrire ad ogni ospite del vino fatto in casa. Soprattutto rosso. 

Ogni tristezza o ogni gioia veniva affogata nel vino e spesso si prendevano delle sonore piche che duravano per giorni. Matrimoni, battesimi ecc.  venivano celebrati con abbondanti libagioni.

 C’era un’espressione che circolava nel paese Si…me mbriacu, voleva dire che se qualcosa si fosse realizzato, la riuscita sarebbe stata celebrata con un’ubriacatura. 

Questa grande sete di vino veniva soddisfatta non solo nelle case, ma anche nelle cantine.

Le cantine, o putighe ‘e vinu, erano dei piccoli locali, disseminati in tutto il paese, dove si poteva bere vino locale, preso direttamente dalla botte. Si trovavano quasi sempre in magazzini a pian terreno, senza finestre e quindi scuri. 

Ce n’erano tante. A Conflenti Inferiore, in periodi diversi, c’erano quelle di Peppe a Marca; Giuanni a Marca, Michele e Sassina, Stella, Peppe Audinu. Anselmo Calabria, Pasquale u Nivaru , Mariu e Girunnu

A Conflenti Superiore Nicola e Cicciu a Polina, Maria e Costantino, Russo, Maurilio. Esse erano frequentate esclusivamente dagli uomini del popolino. Ci si andava di pomeriggio o di sera. In alcune si giocava a carte. Si beveva e si parlava. Qualche volta la discussione diventava accesa e scoppiava una lite. Qualche volta c’è scappato il morto.

Perché tante cantine? Un motivo valido è che il vino era davvero buono, rinomato in tutto il circondario e inoltre una volta il paese era molto abitato, dai quattro ai cinquemila abitanti; la gente lavorava duro nei campi e, al ritorno, amava scambiare qualche chiacchiera con gli amici e riposarsi un po’.

Poi, clienti abituali erano gli abitanti delle campagne. C’era un tempo in cui per ogni incombenza i campagnoli dovevano venire in centro paese. Matrimoni, battesimi, funerali si svolgevano nel centro storico. E venivano anche per sbrigare pratiche amministrative, per fare la spesa (non c’erano negozi nelle frazioni).  

All’epoca mancavano le strade e, sia all’andata che al ritorno, bisognava fare diversi chilometri a piedi. Quindi molti, per ritemprarsi, facevano una sosta nelle cantine prima di affrontare il ritorno. Non è un caso quindi che esse erano spesso poste strategicamente in prossimità delle vie di uscita dal paese.

Curioso ma vero: le donne non entravano mai nelle cantine e quando qualche volta venivano a riprendere i mariti, che tardavano a rientrare, si fermavano sulla soglia. Capitava però che alcuni di questi locali fossero gestiti da donne. Uno di questi era quello di Maria ‘e Costantino che si avvicendava con la figlia Sina. Quello di Nicola e Polina fu gestito per lungo tempo dalla suocera Tiresina. E, negli anni Sessanta, era ancora una donna a gestire quello in prossimità della stradella.

Conflenti vanta nelle sue antiche costruzioni, pubbliche e private, bellissimi portali in pietra tufacea intagliata. Questi portali sono stati costruiti utilizzando la caratteristica pietra di Altilia, che faceva parte come il nostro paese della contea di Martirano. Le opere sono frutto di maestranze locali, i maestri scalpellini di Altilia, che si sono quasi sempre ispirati a illustri prototipi di portali e decorazioni presenti nelle zone dell’alto Savuto e più precisamente a Rogliano, che venivano poi rielaborati con gusto e adattati alle esigenze dei committenti.
La feconda attività di questi scalpellini che hanno operato a Conflenti a partire dalla fine del ‘500 è facilmente riscontrabile osservando numerosi manufatti in pietra intagliata ubicati anche nei vicoli meno importanti e a decoro di case che di certo non possono essere definite nobiliari.

Nonostante le incurie del tempo e il gusto discutibile dell’uomo, che spesso per esigenze di confort o sicurezza ha optato per modifiche e portoni in metallo, questi portali mantengono ancora un ottimo stato di conservazione e possono essere ammirati lungo le strade più importanti del paese.
La serena bellezza di questi manufatti resta intatta e non soccombe né alle mode né al progresso tecnologico.
I portali di Conflenti così come le mensole di alcuni balconi o alcuni fregi ornamentali sono caratterizzati da un comune denominatore costituito dalla sobrietà.
Generalmente molti di essi sono simili nell’impostazione e nell’esecuzione tanto da poter essere sovrapponibili, altri presentano una maggiore articolazione a doppia fascia decorata, forse in considerazione di una migliore posizione economica e sociale dei proprietari. 

Altri ancora si discostano completamente dalla quasi serialità dei motivi ornamentali con impianti e intenti scenografici e monumentali direttamente rapportabili al peso e alla forza delle famiglie gentilizie committenti.
Basamento pronunciato con semplici motivi a riccioli, una fascia scanalata, motivi litoformi stilizzati sopra e sotto la mensola di imposta e chiave di volta più o meno pronunciata con tralci o almette o riccioli o volute affrontate, questi i motivi ricorrenti per i portali di casa Paola e Gentile in Via Vittorio Emanuele, di casa Politano e Mastroianni in via Garibaldi di casa Giudice e Stranges alla discesa del Piro.

Impostazione più elaborata, ma analoghi elementi decorativi con qualche piccola variante tra l’uno e l’altro, presentano i portali di casa Pontano, di casa Cicerone, di casa Isabella e casa Folino su via Garibaldi.
Diversi da questi i due eleganti portali di casa Calabria e casa Talarico sempre su via Garibaldi, che presentano una prima fascia bombata ed una seconda fascia coi motivi consueti, ma qui ridotti per non togliere importanza alla voluminosità dell’arco che è chiuso da una ghirlanda di fiori e foglie penduli poste ai lati della chiave di volta.
I portali più importanti ovviamente, così come si conviene all’importanza del casato, sono quelli di casa Vescio in zona Piazza S. Andrea.

Questi portali sono caratterizzati da un’impostazione monumentale e da un disegno inconsueto in cui si fondono due prototipi. In pietra calcarea presenta arco a tutto sesto e una doppia fascia. Nella prima fascia bugne rettangolari si alternano a bugne a punta di diamante affiancate, queste ultime, da rosette stilizzate. La seconda fascia è incorniciata da un arco cigliato, decorata in basso con un motivo a palmetta e volute fogliate sopra e sotto i capitelli.

In posizione fortemente aggettante si innesta sulla chiave di volta un elegante stemma a cartiglio, l’unico presente a Conflenti. Il portale è datato fine ‘500.
Il palazzo, il secondo in ordine di tempo, dei tre grandi palazzi appartenuti alla famiglia Vescio nel 1927, per volere testamentario di Raffaelino De Maio, fu lasciato alla chiesa.
Dal 1980 è tornato di nuovo di proprietà della famiglia Vescio, ma rappresenta un patrimonio della comunità di Conflenti e della Calabria intera.

 

               Liberamente tratto dal libro di Giuliana Carnovale

La superstizione che ha origini antichissime era molto diffusa a Conflenti, pur se filtrata da un atteggiamento di saggio autocontrollo.
Anche da noi, come in tutti i paesi della Calabria, esistevano dei riti a cui si attribuiva il potere di scongiurare eventi negativi o di propiziarne altri positivi e si credeva alla particolare virtù di piante, talismani o figure speciali come maghi o fattucchiere, per togliere magarie, aduacchiu o affascinu.

Ad esempio: alcune azioni era meglio non farle perché portavano male.
Le cose liete o importanti era meglio non farle di venerdì, le posate non si dovevano mettere a forma di croce, come il pane al contrario.
Erano guai in arrivo se cadeva a terra l’olio, se entrava in casa un apunaru o se si rompeva uno specchio.
Anche ai sogni era attribuito un significato, sognare la morte di un familiare gli allungava la vita e sognare pidocchi prediceva l’arrivo di soldi, mentre sognare uova bianche portava male…..e si potrebbe continuare all’infinito.
Ovviamente col diffondersi dell’istruzione e della cultura molti pregiudizi sono stati superati o si ripetono senza convinzione, eppure un forte retaggio rimane ancora molto radicato.
Un forte pregiudizio per i conflentesi è la jettatura detta anche aduacchiu.  Per quanto sia forte il senso religioso nella nostra comunità non si riesce a fare a meno di credere nell’influsso malefico dei sortilegi.
Di conseguenza quando si parla con amici, vicini o conoscenti per evitare di apparire jettatore si ricorre a qualche scongiuro tipo: foremaluacchiu o benedica e si regala qualche talismano, ferro di cavallo o corno. 

Ancora molto misterioso e temuto è laffascinu, che colpisce soprattutto bambini e persone ingenue e credulone, e cioè categorie di persone esposte all’ammirazione della gente e che poco si sanno guardare e difendere.  Talvolta basta uno sguardo o una parola di lode o di ammirazione di un amico, anche in buona fede, per restare affascinati.
Per combattere l’affascinu nei confronti dei bambini, che provocava ai malcapitati forti dolori e malessere diffuso, si ricorreva spesso a immagini sacre e sale, nascosti in piccole sacche negli indumenti intimi e alla parola “benedica” prima di ogni elogio.
Ma quando ogni precauzione risultava vana bisognava ricorrere ad un complicato intervento, u carmu, di una persona esperta.

Può carmare una magara o una comare che conosce il rituale segreto, con parole o unguenti. Se durante il carmu  la comare e l’affascinatu sbadigliano, bene; vuol dire che l’affascinu sta andando via e la vittima guarisce. Se la comare non può venire a casa, basta mandarle un indumento usato e lei opera ugualmente.
Altra credenza molto diffusa tra la gente comune è quella degli spirduri , ossia degli spettri, dei fantasmi, dell’ombra dei trapassati.
Più precisamente l’umbra è quella dei morti di morte naturale, u spirdu è quello dei morti ammazzati.
Se una persona si trova a passare dal luogo dove, si sa, è stato ammazzato qualcuno deve pensare al fatto concentrandovisi, perché se si passa sprecurati, ossia distrattamente se piglia ru spirdu e si hanno dei disturbi gravi per cui si deve andare al Santuario ed essere sottoposti a particolari pratiche esorcistiche (un tempo Donnu Stefanu, sacerdote buono e austero era specializzato nel cacciare spirdura).

 

                                              Di Giuliana Carnovale

Parlando degli antichi mestieri conflentesi non si può non raccontare dei vecchi custulieri, gli odierni sarti.

 

Quella della sartoria era un’arte praticata sia da uomini che da donne e che richiedeva molta pazienza, precisione e versatilità.

Il sarto di un tempo era un vero e proprio professionista che, grazie alle proprie abilità manuali, era capace di creare capi di abbigliamento con qualsiasi tipo di stoffa, dalle più pregiate alle più economiche, rispondendo, così, alle esigenze di tutte le fasce della popolazione.

 

‘A mastra ‘e na vota

Quando si aveva la necessità di un nuovo vestito, ci si recava dal sarto il quale prendeva le misure ai propri clienti e tagliava e cuciva l’abito da confezionare. I mastri custuliari e le mastre custulere di un tempo erano affiancati da una bella schiera di discipuli. Ricordiamo con piacere za Lella e Vittorio Paola al casale. Tumasi ‘e Betta, Mario Vescio, Nicola e za Girualima, Ida Calabria e Delfina Audino. E ancora Luicina a specchia a Santa Maria poi Lina a barona, za Ntunuzza e Sarina all’Immacolata. Queste persone hanno fatto del loro mestiere un dono, condividendo il proprio sapere gratuitamente con chi aveva voglia e passione di imparare tale mestiere. Le ragazze, infatti, nel periodo estivo andavano a imparare l’arte del cucito. E pian piano si venivano a creare gruppi affiatati.

La prima cosa che dovevi imparare dalla mastra era u suprammanu ossia il sopraffilo. A seguire a gnimatina, ovvero l’imbastitura. Si passava gradualmente alla cucitura dei bottoni e alla famosa purteddhra, vale a dire l’occhiellatura. Il laboratorio della mastra diventava anche un luogo di socializzazione per quelle ragazze che non avevano le odierne libertà. Si confidavano e si raccontavano i loro amori impossibili. Quando la sarta si allontanava le ragazze a bassa voce parlavano dei loro corteggiatori, dei vestiti che avrebbero indossato durante le feste estive. Tra canti, preghiere e cucito passavano i giorni.
E poi i ritagli sotto il tavolo sparsi qua e là e il profumo delle stoffe nuove ripiegate. Ci volle una stagione intera per imparare i punti base. 

Andando da Sarina la prima cosa che mi fece fare fu togliere le imbastiture dai vestiti. L’anno dopo ero preparata e Sarina mi affidò il primo vestito da confezionare. Dovevo fare e crucette. Capii che era vietato sbagliare perché la stoffa era costata denaro, aveva un valore. Non mi potevo permettere distrazioni e a ogni passaggio per la creazione del vestito ero più volte controllata da lei stessa per essere certa che tutto fosse fatto nella maniera corretta. Sudavo freddo e la mano mi tremava ma l’abito cominciò a prendere forma. Quando il vestito, dopo giorni di lavoro, era pronto, la mia soddisfazione fu tanta. Lei mi diceva sempre che per capire se un lavoro era stato svolto correttamente bisognava osservarlo al rovescio.

Abiti unici nel loro genere

E poi martedì arrivava Ugo, il venditore ambulante di Pedivigliano, dal quale si rifornivano i sarti. Oltre al corredo vendeva stoffe, foderami e scampoli a metraggio di ogni genere. Le donne toccavano, esaminavano attentamente i tessuti per poter immaginare come sarebbe potuto venire l’abito da realizzare.
La figura della sarta è diventata col tempo un mestiere più complesso e i giovani che intraprendono questa strada non sono molti. E che dire? Un abito cucito su misura è perfetto per il nostro corpo, molto più di un abito confezionato in serie dalle grandi catene di abbigliamento. Un abito realizzato da una mastra è unico nel suo genere.

 Liberamente tratto da un racconto di Lucy Stranges

L’orto di Lorenzu u minutu, il proprietario del primo mulino elettrico di Conflenti, è proprio di fronte alla sua abitazione, recintato e sempre ben tenuto.
Non che i mandarini che vi crescevano erano di una qualità migliore, ma era piacevole andarglieli a rubare per la sfida che il fatto comportava, il rischio di essere colti sul fatto, ed il vanto ed il prestigio che derivavano nel gruppo se potevi vantare un alto numero di scorrerie impunite.
Il momento più propizio per la spedizione era l’imbrunire quando il proprietario andava a mangiare, Lorenzo era puntualissimo.
Il piacere aumentava se tra i predatori si riusciva ad avere Pasqualinu e Pilune, capobanda dei ragazzini che abitava all’uartu i striddri.
Entrati nell’orto nel massimo del silenzio possibile, si raggiungeva l’albero cominciando a raccogliere i frutti dai rami più bassi; quando presto finivano, ci si arrampicava guardinghi iniziando le manovre di posizionamento in previsione della fuga precipitosa.
Era stato sperimentato che appena il mugnaio si rendeva conto dell’invasione, apriva la finestra, metteva in bella mostra il fucile caricato a sale sul davanzale, e poi scendeva di tutta fretta nell’orto.  Per compiere tutta questa procedura occorreva un certo tempo che, se sfruttato bene, consentiva l’impunità e quindi di beffeggiare il derubato.

Era perciò necessario non salire sui rami più alti, ma ad una altezza da cui, appena sentito l’avvertimento, era possibile lasciarsi cadere a piombo per nascondersi nell’erba; poi, nel tempo intercorrente alla discesa nell’orto del proprietario per un sopralluogo con constatazione dei danni, c’era tutto la possibilità di allontanarsi tranquillamente.
Ma se c’era Pasqualinu, lui saliva sui rami più alti, vuoi perché quelli più bassi erano di solito occupati e vuoi perché si lusingava per il suo coraggio e per la bravura ad arrampicarsi.
Allora si aspettava che il mugnaio entrasse in azione e se magari a causa di ospiti sempre presenti in quella occasione si attardava, allora si provvedeva con qualche rumore a destarlo.
Capitava però che Lorenzo era particolarmente veloce e qualche malcapitato non era sollecito a buttarsi dai rami più alti, allora si veniva colti sul fatto, e qualche calcio era il minimo che si raccoglieva.
Da quel momento in poi era un correre negli orti vicini, spronati dal bruciore dei calci presi e dal sudore della corsa, a trovare riparo e a leccarsi le ferite. 

    

   Liberamente tratto dai racconti di Franco Stranges