Quello del quadararu è uno di quei lavori ormai scomparsi che facilmente ci riportano alla mente il mondo degli antichi mestieri. Mestieri che col tempo sono scomparsi ma che ci ricordano un passato fatto di grandi sacrifici eppure carico di valori e speranze.
U quadararu
U quadararu era sempre unto di nero, come il suo viso e i suoi vestiti. Anche la forgia solitamente era un piccolo locale nero, pieno di fuliggine e maleodorante di acido muriatico. Ma lui era un’artista! Un’artista nel riparare gli oggetti di rame o a crearne dei nuovi. Se una quadara si sfondava o si ammaccava in più punti per l’usura, lui la rimetteva a nuovo; se era rotta e ci voleva una pezza, che ricavava da una vecchia pentola non più utilizzata, l’applicava esternamente con dei chiodini di rame. Invece, se doveva mettere a nuovo l’interno della pentola, rendeva prima liscia, lucente e uniforme la superficie e poi stendeva dello stagno strofinando con una matassa di canapa fino a quando il lavoro non era eseguito alla perfezione.
U quadararu a Conflenti
Nel nostro paese, in cui è molto viva la tradizione dei soprannomi, è ancora possibile rinvenire nomignoli legati proprio a questa professione. Uno dei più rinomati quadarari era Giosuè Pasqua detto Franciscu u quadararu. Originario di Grimaldi, arrivò a Conflenti dove svolse dapprima l’attività di venditore di rame e successivamente si dedicò alla professione de quadararu. La sua bottega si trovava nei pressi del bar centrale. Era composta da due locali, in uno vendeva le sue creazioni e nell’altro effettuava i lavori.
Nella bottega, con le mani incallite, insegnò questo mestiere a due dei suoi figli: Lissandro e Gigino.
Insegnò loro a riparare e a creare caldaie, pentole, tegami, bracieri e tutto l’occorrente per la cucina. Con una cesoia ritagliava le lamiere, le piegava, le modellava sul fuoco con il solo uso del martello e, infine, le saldava. Negli ultimi tempi, la loro maestria era molto ricercata per la costruzione di recipienti per l’olio: le giarre!
Era Mastru Franciscu ad organizzare il lavoro e i figli lo seguivano in tutto. Si spostavano di paese in paese offrendo i loro “servigi”; si recavano a piedi nelle fiere del circondario per vendere i loro prodotti. Una vita difficile, fatta di sacrifici e di duro lavoro che li teneva lontani da casa e dalla famiglia ma che permetteva loro di avere il necessario per vivere una vita dignitosa. Alla sua morte, i due fratelli continuarono a lavorare insieme per po’ di tempo ma poi decisero di dividersi. Lissandro continuò a lavorare nella bottega del padre mentre Gigino ne aprì una nuova in via Marconi, in un locale di Arnoldo il macellaio, e vi rimase fino a fine anni ’70. Purtroppo, nessuno dei nipoti, sia per l’emigrazione sia per l’avvento della tecnologia, ha continuato a svolgere questo mestiere e a mantenere viva la tradizione.
I quadarari ambulanti
Dopo Giginu e Lissandru, a Conflenti iniziarono ad arrivare i quadarari ambulanti. Richiamavano l’attenzione delle donne urlando a squarciagola: “U quadaraaru! È arrivatu u quadararu!” Un urlo inconfondibile risuonava per le vie del paese, al quale le donne si precipitavano sull’uscio di casa e consegnavano nelle loro mani pentole, caldaie e altri utensili in rame che avevano bisogno di essere riparati. Questi artigiani avevano però la fama di essere abbastanza sfortunati perché tutte le volte che arrivavano pioveva o nevicava e il loro lavoro, sempre all’aperto, diventava più faticoso. Ecco da dove arriva il modo di dire “tiani a fhurtuna du quadararu” volendo così indicare una persona sfortunata. A lavoro finito, si spostavano in un’altra via nella speranza di portare a casa, a fine giornata, un cospicuo guadagno.