Nato a Conflenti il 7 Febbraio 1950, Franco Roperto è figlio di Santo e Rosina R
operti. Laureatosi in Medicina Veterinaria, è diventato nel 1986 professore ordinario di Patologia Generale Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Napoli “Federico II”.

Oggi Franco Roperto è il presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno. Con sede centrale in Portici, è uno dei dieci Istituti Zooprofilattici presenti in Italia. Nel 2022 ha ricevuto la Laurea Honoris Causa da parte dell’Università di Scienze Agricole e Medicina Veterinaria di Cluj Napoca in Romania, onorificenza consegnatagli dal Rettore dell’Ateneo Cornel Catoi.

È stato Preside della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” dal 2001 al 2007 e dal 2001 fino al 2010 è stato Presidente del Comitato Tecnico per il corso di laurea in Medicina Veterinaria e in Scienze delle Produzioni Animali presso l’Università “Magna Graecia” di Catanzaro.

Diplomato Europeo dell’European College of Veterinary Pathology (ECVP), ha avuto diverse esperienze internazionali, tra le quali quelle di Visiting Professor al Dipartimento di Fisiologia Cellulare e Molecolare della Yale University e di Visiting Professor all’Istituto di genetica e biologia generale dell’Università di Salisburgo. È stato inoltre componente del CNSA, un comitato di tredici esperti che si occupa di tematiche legate alla sicurezza alimentare e che svolge un ruolo di consulenza del Ministro della Salute. 

Nel 2007 è stato nominato componente del Comitato Nazionale del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali per la valutazione della ricerca in agricoltura biologica e in sicurezza alimentare. Ha fatto parte dell’Editorial Board e dei comitati scientifici di diverse società mediche veterinarie italiane ed è stato Presidente nazionale della Società Italiana dei Patologi Veterinari. 

Sposato dal 1976 con Gina Paola, anche lei di Conflenti, e padre di due figli, Sante e Rosanna, vive e lavora tra Caserta e Napoli. Ma torna a Conflenti con la famiglia in tutte le occasioni possibili.

Da piazza S. Andrea, Rosalbino Grandinetti nel 1936 decise di abbandonare il suo lavoro di ebanista e di emigrare, come tanti altri compaesani, in America in cerca di fortuna. Sessant’anni dopo, suo nipote Russell ha lasciato il suo lavoro alla Morgan Stanley per trasferirsi da New York a Seattle e dare vita con Jeff Bezos a un’idea dal nome insolito: Amazon.
In pochi anni, il sogno di un gruppo di trentenni è diventata la più grande internet company del mondo.
A luglio 2015 per la prima volta Russell, vice-president senior e responsabile mondiale dell’e-commerce del colosso americano, è venuto a Conflenti (tornandovi anche negli anni successivi) per ricevere, accompagnato dalla moglie Hanouf e dal figlio Zade, la cittadinanza onoraria nel corso di una sontuosa cerimonia.
Quel giorno dichiarò:
“Essere qui è per me una grande emozione. Mio nonno raccontava quanto fossero per lui importanti la famiglia, i parenti e il cibo. Ha sempre conservato un ottimo ricordo del paese che l’aveva visto nascere e nei suoi racconti c’erano sempre episodi legati a Conflenti. Era molto orgoglioso di essere calabrese”

Immerso nell’affetto dei compaesani, quella giornata ha consentito anche una ricostruzione storica familiare, nonché la riscoperta della vecchia abitazione di famiglia in vico VIII Garibaldi. Un paio d’anni più tardi, Russell Grandinetti è tornato a Conflenti anche con suo padre, assente dalla Calabria da oltre mezzo secolo, facendogli rivivere case e viuzze della sua infanzia.
Grande tifoso del Napoli e amante dell’Italia, dove torna in vacanza ogni anno, Russell (nome americanizzato dell’italico Rosalbino) ha sempre apprezzato le sue radici calabresi e il forte legame con la terra d’origine, mantenendo vivi i contatti con amici e parenti di Conflenti, anche da Oltreoceano.

La storia sofferta di Gaetano è probabilmente la storia di tanti emigrati conflentesi e, per questo, commovente e meritevole di essere raccontata.

La grave crisi economica che attraversava l’Italia nell’immediato Dopoguerra non risparmiava certo il nostro piccolo paesino, dove la situazione era davvero molto difficile con analfabetismo, disoccupazione e povertà dilaganti.

“Le Americhe” e i famosi viaggi della speranza verso nuove terre che promettevano benessere e ricchezza si prospettavano come l’unica possibilità di sfuggire ad un destino segnato.

Anche la famiglia di Gaetano stava attraversando un momento molto difficile. Viveva di sacrifici e stenti. E fu così che i genitori decisero di partire per l’Argentina alla ricerca di una vita migliore. Partì dapprima il padre con uno dei suoi fratelli e in seguito li raggiunsero Gaetano, insieme alla madre e gli altri due fratelli. Gaetano lascia Conflenti con il cuore a pezzi, non riesce a salutare gli amici, è un dolore troppo forte! 

Tuttavia, parte accompagnato dalla speranza di arrivare in Argentina, avere successo e poi tornare da vincitore nel suo amato Paese. Affronta il lungo viaggio in balia dell’Oceano intrattenendo i passeggeri della nave con musiche popolari e canti conflentesi. Era un modo per continuare a sentirsi vicino alla sua amata Conflenti. 

Arriva in Argentina e inizia la sua nuova vita ma non è la vita che aveva sperato e sognato. Sposa una ragazza del luogo e trova lavoro come spazzino.

Amato e rispettato da tutti, conduce una vita dignitosa ma con il pensiero fisso di tornare almeno una volta a Conflenti. La sua condizione economica non è però tale da permettergli di coronare il suo sogno e tornare in paese.

Per sua fortuna arriva a Buenos Aires Salvatore Buonocore, accompagnato dall’allora sindaco di Conflenti Giovanni Paola. Si incontrano, chiacchierano e Gaetano racconta la sua storia e il suo sogno. Tornato a Conflenti Salvatore, particolarmente sensibile al tema dei nostri emigrati, non dimentica quell’incontro.

Dopo qualche mese si reca in un’agenzia di viaggi e, facendosi carico di tutte le spese, anche grazie al supporto di Don Adamo, compra un biglietto aereo per l’Italia da regalare a Gaetano per permettergli di realizzare il suo sogno.

Il ritorno nell’amata Conflenti

Alla veneranda età di settant’anni, Gaetano finalmente torna a Conflenti

Il suo ritorno è indimenticabile, tutta la comunità è coinvolta dall’emozione per il ritorno di un suo figlio. Gaetano scoppia di felicità. Piange come un bambino e non riesce a trattenersi. Cammina per strada suonando i campanelli e urlando: sono Gaetano, sono tornato! Poi va nella sua vecchia casa e cerca un buco nella porta che dava sul giardino. 

Lo aveva fatto con il fratello Alfredo quando erano piccoli, ed era ancora lì! Comincia a ricordare le giornate estive trascorse correndo sui prati fioriti catturando grilli e inseguendo farfalle e poi andando sudati a bere alle sorgenti di acqua fresca. Quante emozioni, quanti ricordi!

Gaetano confida di aver vissuto una vita sospesa tra due mondi. 

Diceva sempre: “Ho vissuto due vite parallele. Di giorno vivevo e lavoravo a Lanus ma la notte, tutte le notti, in questi cinquant’anni sono ritornato nel mio amato paese. Camminavo lungo le strade, cercavo di ricordare i negozi, i bar e la gente che vi avevo lasciato. Non volevo dimenticare niente. Tutto doveva rimanere nitido nella mia mente. La terra che mi ha dato da mangiare è l’Argentina, la rispetto e gli sono grato ma la terra che mi ha dato la vita è l’Italia e io non l’ho mai dimenticata“.

I luoghi del cuore sono i luoghi dove abbiamo vissuto le emozioni che hanno plasmato la nostra vita. Emozioni che non potranno mai essere dimenticate. Sono luoghi speciali, intimi e profondi che soprattutto chi è all’estero ne custodisce gelosamente la memoria e Gaetano ne è la conferma.

A Conflenti agli inizi del Novecento i mezzi di trasporto erano quasi inesistenti. C’erano  persone che utilizzavano i muli, le giumente, gli asini, ma si trattava certamente di pochi privilegiati; la maggior parte della gente era obbligata a spostarsi a piedi. Si andava lontano o vicino, di notte o di giorno, senza lamentarsi e si camminava per ore. Moltissime donne, a quell’epoca, non portavano scarpe e il cammino, per loro, era naturalmente più faticoso. Quasi tutti i terreni coltivati: orti, castagneti, vigne, frutteti, erano fuori dal  paese e i proprietari vi si recavano più volte al giorno. La legna, le donne andavano a cercarla nei terreni del demanio al Reventino. Almeno due – tre ore di cammino.  Alcuni scolari, in campagna, per raggiungere la scuola dovevano camminare per chilometri. Quando c’era un funerale, gli abitanti delle contrade dovevano sobbarcarsi un viaggio estenuante per accompagnare il morto sino al cimitero di Conflenti. Lo facevano con qualsiasi tempo (se c’era neve trasportavano la bara facendola scivolare su una specie di slitta rudimentale).  E dovevano affrontare lo stesso percorso quando si svolgeva un matrimonio, quando c’era da sbrigare una pratica in municipio, quando occorreva andare dal medic0

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Grispeddrare, cestai, barilai partivano all’alba e facevano un lungo tragitto per andare a vendere i loro prodotti nei paesi vicini: Martirano, San Mango, Motta Santa Lucia, Nicastro. Qualche volta si spingevano sino a Cosenza e Catanzaro. C’erano studenti che quotidianamente andavano e rientravano da Nicastro, passando per Acquavona e scendendo o salendo per Rametta.  Un percorso che richiedeva tre o quattro ore di cammino sia all’andata che al ritorno. Lo stesso facevano i proprietari di negozi andavano a rifornirsi della merce da vendere a Nicastro.
Generalmente questi viaggi si facevano in compagnia e la fatica si sentiva meno. Si conoscevano le scorciatoie e si guadagnava sul tempo di percorrenza.  Però c’era anche chi s’avventurava da solo per lunghi viaggi.
Uno di questi era Luciano Villella.
Di professione faceva il calzolaio ma era abile in moltissimi altri lavori. Era anche un ottimo innestatore e veniva chiamato spesso per prestare la propria opera nei paesi del circondario. Quando doveva recarsi a Cosenza, invece di percorrere i sentieri che attraverso la valle del Savuto, da Motta Santa Lucia e Scigliano, portavano alla città e che abitualmente facevano i nostri compaesani,  preferiva  l’itinerario che partiva da Decollatura e seguire, sino a destinazione, la via ferrata.

Un percorso più lungo e più pericoloso. Bisognava attraversare molte gallerie e c’era la possibilità che il treno arrivasse all’improvviso.  Per Luciano il viaggio era ancora più rischioso perché era sordomuto. Egli però aveva trovato la soluzione che probabilmente gli salvò più volte la vita, facendolo arrivare sempre incolume a destinazione. Portava con sé un bastone che ogni tanto faceva strisciare sui binari e che gli permetteva di percepire l’approssimarsi del treno. Quando ciò succedeva, si fermava e dopo il passaggio della locomotiva, riprendeva il suo viaggio. Concluso il suo lavoro a Cosenza ritornava a Conflenti ripercorrendo la stessa via che aveva fatto all’andata. Naturalmente sempre in compagnia del suo bastone. 

 

Di  A. Coltellaro

In prossimità di Piazza Sant’Andrea, c’è un posto molto bello e caratteristico che i conflentesi ultimamente identificano come funtaneddra, ma che i più anziani preferiscono invece chiamare San Giuanni.

Vogliamo spiegarvene il motivo, perché in pochi sanno che, scendendo dal Piro verso a Chiazza, un centinaio di metri prima di arrivare, a fianco della fontanella, c’è ora una civile abitazione, a dire il vero molto bella e particolare, che un tempo era una chiesa e pure molto importante.

A ben guardare qualcosa si potrebbe intuire dall’enorme portale che dà sulla strada principale, ma essendo la chiesa stata sconsacrata molto tempo fa, non tutti ricordano e sono a conoscenza di questa storia.

La chiesa fu costruita la seconda metà del millecinquecento dai Vescio, una potente famiglia del tempo che da Martirano aveva deciso di spostarsi a Conflenti. Era la loro chiesa patronale ed era stata costruita insieme ai loro bellissimi palazzi a testimonianza della loro forza e ricchezza.  

Di questa chiesa parla il Vescovo di Martirano Michelangelo Veraldi in una relazione ‘ad limina del 1699 ed è importante sottolineare che, pur essendo la chiesa parrocchiale di Conflenti dedicata a Sant’ Andrea, la festa originaria del casale era proprio quella di San Giovanni, titolare della chiesa della famiglia Vescio.

Solo un p0′ di tempo dopo, e comunque anche per volere della potente famiglia, questa festa fu sostituita con quella della Madonna di Visora.

Da allora la chiesa di San Giovanni andò perdendo di importanza e la sua primitiva funzione, finendo gradualmente nell’abbandono del culto popolare.

Ad un certo punto venne sconsacrata diventando addirittura un negozio di pellami.

 

 Fonti storiche tratte dai libri dello studioso Vincenzo Villella

Cose bbone d’i Cujjienti

La cucina conflentese si caratterizza per la sua bontà e per la qualità e genuinità delle materie prime.
I nostri antenati, in periodi in cui gli scambi di merci erano molto limitati, sono riusciti a soddisfare i piaceri del gusto utilizzando con garbo e fantasia gli ingredienti di cui disponevano, elargiti generosamente e spesso spontaneamente dalle nostre colline.
Una cucina molto legata a quelle che erano le produzioni più importanti e caratterizzanti l’economia locale, come il miele, il vino, le castagne e un’agricoltura intensiva ed essenzialmente di autosussistenza, da cui arrivavano molti ortaggi e legumi.
È ovvio che si tratta di una cucina fondamentalmente povera, eppure, allo stesso tempo, sorprendentemente ricca in alcune sue espressioni, come quella dei dolci tipici, in cui ha raggiunto livelli di eccellenza.

Cannarutie e cose duce’

Nei tempi passati in occasione di zitaggi o altre liete ricorrenze e per le feste più sentite si ricorreva all’aiuto di abili maestre dolciere che preparavano autentiche prelibatezze: buccunotti, cuddruriaddri, cuzzupe, suspiri, turdiddri, grispeddre, panette e viscotta.

La loro abilità era fuori dal comune, addirittura creavano con la duttilissima pastella anche i cestini in cui poi presentavano le loro prelibatezze.
Alcune mastre come Licrizia Paola, Ida Raso, Maria ‘e Ddelia o Francischina Coltellaro sono rimaste famose, ma la loro arte e maestria, per fortuna, è stata tramandata molto bene, e ancora oggi Conflenti mantiene questa grande tradizione.

La tradizione ci consegna precetti assolutamente e autenticamente cujjientari per la preparazione di queste cannarutie.
Di alcune di queste autentiche prelibatezze vi forniamo le ricette con la speranza che restino per sempre patrimonio della nostra comunità. (altre le potete trovare navigando sul sito it.conflenti).

Nuciata

Per 1 kg di noci vi serviranno circa 500 gr di miele. Una volta sgusciate le noci (questo è il lavoraccio) fate bollire il miele per circa cinque minuti a fuoco lento. Aggiungete le noci e mescolate continuamente fino a quando, diventate un tutt’uno col miele, si distaccano dalla pentola. Ci vorranno all’incirca 2 minuti. A questo punto versate la poltiglia su un foglio di carta oleata (o carta forno) e stendetela in maniera uniforme. Con l’aiuto di un batticarne formate un panetto di circa 2-3 cm di spessore.  Lasciate raffreddare e tagliate a pezzettini. Cospargete di zucchero i torroncini così ottenuti e avvolgeteli in cartine per dolci (o semplicemente in carta d’alluminio). Ed ecco fatto!

Buccunotti

Ingredienti:

  • 1,5 – 2 kg di farina 00. La quantità è orientativa, dipende da quando ne assorbe l’impasto, che deve risultare morbido
  • 800 gr di zucchero
  • 800 gr di strutto
  • 12 uova
  • due bustine di lievito per dolci
  • la scorza di due limoni
  • mostarda d’uva
  • zucchero

Preparazione:

Setacciate la farina su un piano di lavoro, formando con essa una fontana nella quale mettere, uno per volta, le uova. Mescolate il tutto. In seguito, unite  impastando bene, fino a ottenere una pasta compatta con la quale formare un panetto. Non lavorate troppo l’impasto, altrimenti assorbe sempre più farina. Preparate le formine. Poi con un po’ di impasto stendete una sfoglia spessa circa mezzo centimetro. Formate delle pinne, ossia cerchi dalle dimensioni della formina, e ponetele all’interno dello stampo, facendo ben aderire. Riempite con un cucchiaino di mostarda d’uva.

Con un altro cerchio di impasto coprite la formina. Premete bene sui bordi per evitare la fuoriuscita della mustarda ed eliminate la pasta in eccesso. Ponete le forme su una teglia, non molto vicine, facendo cuocere in forno preriscaldato a 180° per 20 minuti circa. Una volta cotti fateli raffreddare, toglieteli dalle forme. Infine, infarinate nello zucchero. E sono pronti da gustare. Attenzione a non scottarvi con la mostarda!

Grispeddre

Ingredienti

  • 3 kg di patate
  • 2,5 kg di farina 00
  • 100 ml di acqua
  • 60 gr di lievito
  • sale quanto basta
  • olio di semi di girasole (in passato si usava lo strutto)

Procedimento
Lavare le patate, metterle a bollire in una pentola capiente piena d’acqua. Quando sono cotte, sbucciarle e schiacciarle. Aggiungere il sale (devono essere abbastanza salate). Sciogliere il lievito nell’acqua tiepida e buttarlo nelle patate. Mescolare bene e, man mano, buttare un po’ di farina fino a ottenere un panetto morbido. Poi scilare e dare la forma di ciambella allungata. Intanto preparare un tavolo con sopra una tovaglia, sulla quale adagiare le grispelle infarinate. Dopo di che, vanno coperte in modo che stiano al caldo. Quando sono raddoppiate di volume, preparare una padella con abbondante olio di girasole. Quando l’olio è ben caldo, iniziare a friggere fino a doratura.

Per quanto riguarda invece la cucina tipica, vi segnaliamo alcune pietanze povere, ma estremamente gustose: vrasciole ‘e risu, vecchiareddre e juri ‘e cucuzza, frittata ‘e vitarve, milangiane chine e minestra maritata stufata ccu sazizza ‘e purmune e curacchi o minestra servaggia.

 

Per ulteriori dettagli consultate il sito conflenti.italiani.it oppure il libro di Giuliana Carnovale

La grande tragedia bellica avvolge e unisce per una volta, per la prima volta, i villaggi del Sud al resto d’Italia.
Quando scoppia la Prima Guerra Mondiale, i giovani calabresi arrivano al fronte più numerosi che da altre regioni. Partono per le trincee i contadini, i braccianti, gli artigiani, i disoccupati calabresi. Nessuno al Sud sfugge alla guerra.
La Calabria dà una risposta massiccia alla chiamata alle armi e ci saranno brigate composte per lo più da calabresi, la Brescia, la Ferrara, la Jonio, la Cosenza. O la Catanzaro, quella dei “morti con la terra in bocca” sempre in prima linea.
Questi giovani, prima della chiamata alle armi, non erano mai usciti dai loro paesi, non sapevano deve andavano né per cosa combattevano, vittime di un destino più grande di loro e di una Patria che si era ricordata di loro solo nella guerra.

Il fante Eugenio Giudice

In divisa, partito da Conflenti, c’è anche il soldato Eugenio Giudice, di 33 anni, al limite d’età per l’esercito, sposato con Rosaria. Eugenio sta per diventare papà quando gli arriva l’ordine di arruolarsi, nel marzo del 1915. Prima di allora ha conosciuto soltanto il suo paese o le frazioni vicine, quelle che si possono raggiungere a piedi. Per un primo periodo il soldato Eugenio farà una preparazione sommaria a pochi chilometri da Conflenti, a San Fili di Rogliano, poi aspetterà la vera e propria chiamata alle armi.

La partenza al fronte 

Quando è il momento, dovrà lasciare gli affetti e la piccola casa di una sola stanza per piano che sembra essere messa di traverso nel vicolo della sua “ruga”. Con un dolore pesante almeno quanto la sua rassegnazione, alimentata dall’ignoranza e dallo stupore per quanto sta accadendo in quei mesi di guerra. Lui, di origini umili, quasi analfabeta, non è in grado di capire cosa stia succedendo a oltre mille chilometri di distanza, lì al fronte. Conosce la fatica della sopravvivenza, con cui è diventato uomo e marito, ma non il terrore della morte che non lascia scorrere il tempo. Il suo avvicinamento ai campi di battaglia sarà lento e laborioso, durerà diversi giorni, Eugenio andrà e tornerà dal fronte.
Con la sua classe, quella del 1882, è nella milizia mobile, i congedati ancora in gamba, destinata dietro la prima linea. Per due volte farà ritorno a casa. Subito dopo l’addestramento, poi per alcuni mesi dopo la nascita del figlio. Una gioia breve, che acutizzerà il tormento nelle ore più buie dei campi di battaglia. Dal novembre 1915 al nord e non rivedrà più la sua Rosaria, a cui dà rispettosamente del voi, il suo piccolo Antonio, i suoi cari e il suo paese. Il 19 maggio 1916 rimane vittima della Strafexpedition, la grande offensiva lanciata dall’esercito austro-ungarico, quattro giorni prima, il 15 maggio, lungo le valli di imbocco al Veneto.

La corrispondenza con la sua amata Rosaria

La corrispondenza di questi 14 mesi tra gli sposi segue il ritmo degli eventi. Il fante Eugenio usa toni pacati, durante l’addestramento o nei mesi di Catanzaro, malinconici nei periodi di riposo, angosciati nei momenti al fronte, a volte infuriati, ma sempre sorretti dalla speranza che la Madonna a cui non manca mai di rivolgere una preghiera, possa comunque proteggerlo. Eugenio scrive le sue quasi quotidiane cartoline postali alla sposa Rosaria in una lingua che non è il dialetto, e che quindi non esprime a pieno i sentimenti, e non è l’italiano che conosce appena. La carta, la penna e l’inchiostro filtrano i suoi pensieri come dei setacci sempre più fini. Di scritto resta soltanto un accenno di quanto vorrebbe dire, e di quanto non sa e in parte non può dire.

“Oggi in punto forse dobbiamo partire e non sappiamo dove ci tocca andare mentre non ce lo dicono mai”, scrive il 18 aprile 1916. Ma non appena alza gli occhi, quella immensa ruota di cui lui è minuscolo ingranaggio si mostra amara e indecifrabile: Ci tocca andare a Modena poi più avanti. Non c’è chi fare niente perché anche i zoppi devono partire. Pure vi dico che hanno chiamato altre due classi di terza bontà”, scrive da Catanzaro il 30 ottobre 1915 e poi pochi giorni dopo, giunto a Padova rincara: “Siamo come le mosche il mese di agosto e per ogni ora giungono treni pieni di soldati”. A maggio tornerà al fronte.

Per l’ultima volta.  “Andiamo adesso nell’accampamento dove dicono che siamo in terza linea e il posto che noi andiamo si chiama Marga Zolle che è una montagna troppo alta e pure dicono che non è tanto cattivo solo che ci sta la neve”. Siamo giunti alle montagne dello Trentino – annota l’11 maggio –  ci sta buona aria fresca e pure la neve, però ancora non si sa cosa dobbiamo fare. Vuol dire che io però quel giorno vi scrivo sarvo che…. Salvo che, appunto, sia il destino a scrivere per lui l’ultima lettera.

Liberamente tratto dal libro “Vite rubate” di Eugenio Giudice e Vittoria Butera

In un mondo dominato dagli uomini e caratterizzato dalla rassegnazione femminile, Donna Peppina si distinse per coraggio e per capacità che all’epoca venivano considerate prerogative esclusivamente maschili.
Nata a Decollatura nel 1901, in una famiglia di medici illustri, era venuta a Conflenti come sposa di un ricco proprietario terriero: il cav.  Michelino Isabella (Podestà’ di Conflenti dal 1926 al 1930).

Il marito però, morto per un’operazione mal riuscita, la lasciò ben presto vedova e con due figli da allevare.  Altre donne del suo livello sociale, secondo le regole non scritte del tempo, si sarebbero chiuse in casa e avrebbero affidato ad un fattore la gestione delle proprie terre.  Questo non fu il suo caso.
Si rimboccò le maniche e prese le redini della casa governandola con mano ferma e sicura. Prese a seguire personalmente quasi tutti i lavori dei campi: trebbiatura, mietitura ecc. Con grande energia cominciò a spostarsi a piedi o a dorso di un cavallo, seguita dal fido Guido, in tutte le sue proprietà, disseminate nei quattro angoli del paese.
I coloni se la vedevano piombare nei loro terreni in qualsiasi ora del giorno, anche all’alba, e discutere con competenza di lavori e prodotti.  Sapeva far valere i propri diritti, ma era pronta ad aiutare in caso di bisogno.
Accettò la presenza di un figlio gravemente malato, curandolo con amore e sopportandolo con rassegnazione quando creava dei problemi.  Non risparmiò mai soldi e fatica, portandolo nei più famosi ospedali d’Italia, non rinunciando mai alla speranza di alleviargli le sofferenze. 

Preferì fare a meno dell’aiuto che poteva darle l’altro figlio, Giovanni, mandandolo in collegio e invitandolo a occuparsi solo dei propri studi.
Benché i suoi problemi fossero tanti e le sue giornate piene, non lesinò l’impegno in altri ambiti e non rinunciò a dare l’esempio occupandosi di opere sociali e umanitarie: fu presidente dell’O.M.N.I. (Opera Nazionale Maternità’ Infanzia).
Negli anni immediatamente successivi al suo arrivo supportò, purtroppo senza successo, la battaglia portata avanti da Rodolfo Isabella per far passare la ferrovia da Conflenti.
In quegli anni la Calabro-Lucane, infatti, doveva eseguire il tracciato della linea ferroviaria, che da Cosenza portava a Catanzaro. Arrivati a Scigliano si intravedeva la concreta possibilità di far passare la linea per Motta S.Lucia e Conflenti, e quindi proseguire per Decollatura e Catanzaro.
Il dottor Rodolfo Isabella si adoperò con tutte le sue forze per ottenerla, ma si scontrò con la fortissima opposizione dei suoi stessi parenti, i Montoro, che erano contrari al passaggio della ferrovia dalle loro terre e ne impedirono il transito dal nostro territorio.

Ma Donna Peppina va ricordata anche per un’altra grande battaglia.
La giovane vedova diede avvio con grande determinazione, insieme a Peppe Calabria, autista storico del postalino, Rosina Stranges, Alessandro Paola e don Riccardo, alla ricostruzione della chiesetta della Querciola, che era rimasta incompiuta dal secolo precedente.
L’opera, anche grazie alle numerose offerte dei fedeli, venne portata a termine, e se oggi possiamo ammirare sulla collinetta di Serra Campanara la splendida chiesetta, tanto lo dobbiamo alla grande ostinazione dell’indimenticata Donna Peppina.

 

Una vera “madre coraggio” conflentese che è giusto ricordare.

                                                                                  

                                              di  A. Coltellaro

Tanti anni fa, le botteghe a Conflenti, indicate di solito coi nomi dei proprietari, non erano semplici negozi: erano qualcosa di più, non solo gran bazar pieni di roba. 

Oggi facciamo un giro, sospeso tra fantasia e realtà, nella storia della putiga ‘e Giuanni Adinu.

 ‘A putiga 

In bella vista nel suo negozio le forme di formaggio, mucchi di olive nere salate ed enormi barattoli di olive verdi in salamoia, uova accatastate ancora nel grande paniere, la gabbietta di frutta e verdura cresciuta all’aria buona della sua campagna era proprio lì, accostata al muro della bottega. La porta era di legno con un buco della serratura grosso come una finestra per farci girare dentro una chiave di ferro che poteva aprire una chiesa. Una targhetta in latta del Cynar sospesa da un pezzo di spago sosteneva la licenza ingiallita. Attaccati a un gancio, tre palloni che duravano il tempo di un lancio perché puntualmente, dopo una rovinosa caduta fra i rovi, si sgonfiavano miseramente.

Così curiosa osservavo romantiche bambine vestite in pizzo e altre con grandi fiocchi nei capelli raffigurate nei contenitori di latta che contenevano fermagli e ferretti d’osso e plastica sulla destra entrando. E, dietro, tanti ripiani di legno, tutti guarniti di tela bianca in ognuno dei quali era riposta un diverso formato di pasta. Ma anche prodotti in scatola, i primi dadi Knorr e doppio Brodo Star, la zona dei biscotti, del caffè in grani, l’orzo (Tre Gobbetti), miscele (miscela Leone), citrato, bustine effervescenti (Frizzina, Idrolitina). La statua della Madonnina regnava sulle bottiglie di liquori come il vermouth, la marsala, il “Millefiori” (giallo con il rametto con lo zucchero cristallizzato), l’alchermes, il Cynar, il Bianco Sarti, l’Aperol, il Rosso Antico, il Fynsec (ti dà la carica!). Poi i primi brandy, come lo Stock 84 e la Vecchia Romagna.

Le leccornie

Vicino al bancone, per la gioia dei ragazzi, c’erano, poi, barattoli di vetro tentatori con le più attraenti leccornie: dolcissime caramelle a forma di uva e chiavi, piccole giuggiole gommose e coloratissime. E ancora, bomboloni di zucchero gialli o rosa sorretti da asticelle di legno e le strisce di liquirizie. E poi lecca lecca a forma di fischietto, i frizzy pazzi che ti scoppiavano in bocca, le gingomme a forma di sigaretta. Con una di quelle sigarettine rosa ti sentivi un grande e facevi il fenomeno. Per non parlare dei mitici cicci polenti.

Il ruolo sociale 

‘A putiga ‘e Giuanni, inoltre, aveva anche un ruolo sociale nel quartiere: era un punto di riferimento per chi cercava una persona o un indirizzo, o dove si portava la posta ricevuta per errore. Era un ufficio di collocamento per chi cercava lavoro. Lì si veniva a sapere tutto quello che succedeva, di bello e di brutto: furti, matrimoni, nascite, malattie e morti. Ma era anche un luogo di incontro: qui si riunivano gli abitanti della zona. Si incontravano per scambiare qualche parola, per cercare di dimenticare un po’ le difficoltà o la stanchezza della giornata. 

‘A libretta

Poi c’era ‘a libretta consegnata a Giuanni dalla propria cliente alla fine di ogni spesa. Lui vi segnava con il lapis cosa era stato comprato, da chi e il prezzo totale di quel giorno per poi ricopiarlo sul proprio registro di bottega. Per il pagamento in differita bisognava godere di stima e fiducia da parte del bottegaio. C’era, però, un alto senso di dignità. Tutti cercavano di saldare i debiti non appena potevano. Questa usanza tipica della società contadina ha aiutato molto le famiglie a sopravvivere. Capitava, infatti, che il negoziante sapesse delle particolari difficoltà di una famiglia, dovute a malattia, alla perdita di lavoro del capofamiglia e, valutata la situazione, lasciava ai debitori più tempo per pagare. E così, attraverso il ricordo di questa bella persona, mi ritrovo in una dimensione antica fatta di relazioni vere, profonde, basate su gesti semplici quotidiani, a volte meccanici, ma assolutamente densi di vita vera.

Lucy Stranges

 

L’uso di tessere col telaio a mano, a Conflenti Soprano, si perde nella memoria del tempo.
Al telaio si tessevano le lenzuola, le coperte, le tovaglie, che dovevano costituire il corredo delle ragazze in vista del matrimonio.
I tessuti di ginestra, lino, seta, cotone erano belli e resistenti e spesso i capi più ricchi di ricami, disegni fantasiosi e frange si tramandavano di madre in figlia.
Il telaio che si usava a Conflenti era costruito in legno di castagno: era una struttura a forma cubica fornita di sedile per la tessitrice, di un insieme di pedali (pidacchia), della cassitta dei pettini, del lizzu (elemento fatto di fili sottili di acciaio con un occhiello al centro attraverso il quale passano i fili dell’ordito tesi tra i due liccioli). Con u Uzzu si intreccia il filo per costituire la trama.
La tessitrice azionando pidacchia e cassitta faceva viaggiare con le mani la “navetta”, in cui era depositato il filo che durante il percorso si intrecciava con la trama. In questo modo nasceva il tessuto, che, a seconda del filo adoperato e del tipo di lavorazione dava vita al prodotto finale.
Oggi esiste ancora qualche vecchio telaio ma nessuno lo utilizza più, eppure questa tradizione ha rappresentato per lungo tempo una fonte importante di reddito per tantissime famiglie.

A essa era ovviamente collegata la gelsi bachicoltura e anche la produzione di lino e la raccolta di ginestra.  

U siricu

Per un tempo lunghissimo questa pratica è stata molto fiorente nel nostro paese.
Molte donne si occupavano con pazienza di allevare il baco da seta nutrendolo con le foglie del gelso, albero che cresceva in tutte le nostre campagne e di cui si utilizzavano le foglie (u pampinu) e le more (amure janche e russe) dolci e gustose.
I fornitori di semi, negli ultimi anni, erano Micu Baccari e Pasquale Marasco. Gli allevatori ne acquistavano n’unza o nu jiritale.
Ai primi di aprile arrivavano le sementi che insieme ai gelsi venivano “benedetti” durante la settimana Santa o il 25 aprile durante la processione di San Marco.
Per una decina di giorni, circa, i semini venivano custoditi in una pezzuola di lana riposta nel seno delle donne di giorno, mentre la sera si deponeva l’involucro accanto al focolare.
Quando iniziavano a schiudersi venivano sistemati in una scatola di cartone: si coprivano con una carta bucherellata in modo che attraverso i buchini le piccole larve salivano sulla parte superiore (i semi non vitali restavano sotto) ove trovavano le foglioline tenere di gelso e cominciavano ad alimentarsi.
Man mano che le larve crescevano si ingrandiva il contenitore – cannizzi o tafareddre – e aumentava la quantità di foglie di gelso (u pampinu) tritate.

Si procedeva così fino a quando le larve, nutrendosi e crescendo, raggiungevano una certa autonomia.
Quando le larve cominciavano a emettere una secrezione (futura seta) si mettevano nei nachi e cunocchie, ossia scupuli de ilica.  I bachi vi si arrampicavano ed emettendo la seta si costituivano il bozzolo cucuddru. A questo punto si scucuddrava ossia si tiravano i bozzoli dalla cunocchia e si lasciavano riposare perché il filo di seta ha bisogno di solidificare.
I bozzoli in genere venivano venduti ai tramezzieri, ma alcune donne particolarmente abili estraevano la seta dai cucuddri con mezzi rudimentali.  Si mettevano i cucuddri in una caldaia di rame piena di acqua, e con una scupetta si raccoglievano i fili di seta e si avvolgevano nel nimulu.
Se qualche baco diventava crisalide, bucava il bozzolo e quindi si otteneva una seta di seconda scelta, che veniva usata dalle tessitrici per tessere panname misto, insieme al lino e alla ginestra.

U linu e ra jinostra

Oltre alla seta le nostre tessitrici utilizzavano anche il lino e la ginestra nei telai paesani.
Il lino era coltivato, mentre la ginestra si raccoglieva nelle nostre campagne dove cresce spontanea e in abbondanza.
Il lino si seminava in terreni abbastanza freschi; raggiungeva più o meno l’altezza del grano e si mieteva quando la pianta produceva il caratteristico fiore azzurrognolo, anche se alcune piante venivano lasciate maturare per produrre i semi che poi servivano per le produzioni dell’anno successivo.
Gli steli falciati si legavano in gregne e si lasciavano essiccare al sole; quindi si portavano alla macerazione. Le gregne legate nei sacchi si portavano al fiume, si immergevano nell’acqua corrente, si bloccavano con grosse pietre e venivano lasciate in ammollo per una ventina di giorni affinché la fibra legnosa si sfilacciasse e si prestasse alla lavorazione.
Tolte dall’acqua le gregne macerate si battevano con un mattarello di legno , infine si manganavano (col manganaru) per liberare a furia di colpi il filo buono della fibra legnosa.
La stuppa che si produceva ovviamente non era pura, considerati i mezzi rudimentali, ma si avviava lo stesso alla filatura a cui si procedeva con fusu e cunocchia.

Quindi coi telai a mano il lino si trasformava in tessuto.
Per quanto riguarda la ginestra, la raccolta avveniva a giugno, quindi si legava in mazzetti e si portava in riva al fiume dove si accendeva un fuoco all’aperto e si immergevano gli steli in una caldaia piena di acqua bollente.
I fasci di ginestra si lasciavano poi macerare sotto l’acqua corrente e quando erano inteneriti si cospargevano di sabbia e si strofinavano su uno stricaturu.
A furia di strofinare si sfilacciavano le fibre e si riducevano in filo rudimentale che poi veniva raccolto nel nimulo e tessuto per fare strofinacci da cucina (grosse) e fadali.
Passate al bucato diverse volte, le grosse diventavano più morbide e allo stesso tempo resistenti e durature.
Ogni sposa ne portava al corredo quattro o sei, e ancora oggi in fondo a qualche vecchia cascia si può ancora trovare na grossareddra de jinostra.

 

                                   Di Giuliana Carnovale.