I giovani conflentesi partono per la Grande Guerra
La grande tragedia bellica avvolge e unisce per una volta, per la prima volta, i villaggi del Sud al resto d’Italia.
Quando scoppia la Prima Guerra Mondiale, i giovani calabresi arrivano al fronte più numerosi che da altre regioni. Partono per le trincee i contadini, i braccianti, gli artigiani, i disoccupati calabresi. Nessuno al Sud sfugge alla guerra.
La Calabria dà una risposta massiccia alla chiamata alle armi e ci saranno brigate composte per lo più da calabresi, la Brescia, la Ferrara, la Jonio, la Cosenza. O la Catanzaro, quella dei “morti con la terra in bocca” sempre in prima linea.
Questi giovani, prima della chiamata alle armi, non erano mai usciti dai loro paesi, non sapevano deve andavano né per cosa combattevano, vittime di un destino più grande di loro e di una Patria che si era ricordata di loro solo nella guerra.
Il fante Eugenio Giudice
In divisa, partito da Conflenti, c’è anche il soldato Eugenio Giudice, di 33 anni, al limite d’età per l’esercito, sposato con Rosaria. Eugenio sta per diventare papà quando gli arriva l’ordine di arruolarsi, nel marzo del 1915. Prima di allora ha conosciuto soltanto il suo paese o le frazioni vicine, quelle che si possono raggiungere a piedi. Per un primo periodo il soldato Eugenio farà una preparazione sommaria a pochi chilometri da Conflenti, a San Fili di Rogliano, poi aspetterà la vera e propria chiamata alle armi.
La partenza al fronte
Quando è il momento, dovrà lasciare gli affetti e la piccola casa di una sola stanza per piano che sembra essere messa di traverso nel vicolo della sua “ruga”. Con un dolore pesante almeno quanto la sua rassegnazione, alimentata dall’ignoranza e dallo stupore per quanto sta accadendo in quei mesi di guerra. Lui, di origini umili, quasi analfabeta, non è in grado di capire cosa stia succedendo a oltre mille chilometri di distanza, lì al fronte. Conosce la fatica della sopravvivenza, con cui è diventato uomo e marito, ma non il terrore della morte che non lascia scorrere il tempo. Il suo avvicinamento ai campi di battaglia sarà lento e laborioso, durerà diversi giorni, Eugenio andrà e tornerà dal fronte.
Con la sua classe, quella del 1882, è nella milizia mobile, i congedati ancora in gamba, destinata dietro la prima linea. Per due volte farà ritorno a casa. Subito dopo l’addestramento, poi per alcuni mesi dopo la nascita del figlio. Una gioia breve, che acutizzerà il tormento nelle ore più buie dei campi di battaglia. Dal novembre 1915 al nord e non rivedrà più la sua Rosaria, a cui dà rispettosamente del voi, il suo piccolo Antonio, i suoi cari e il suo paese. Il 19 maggio 1916 rimane vittima della Strafexpedition, la grande offensiva lanciata dall’esercito austro-ungarico, quattro giorni prima, il 15 maggio, lungo le valli di imbocco al Veneto.
La corrispondenza con la sua amata Rosaria
La corrispondenza di questi 14 mesi tra gli sposi segue il ritmo degli eventi. Il fante Eugenio usa toni pacati, durante l’addestramento o nei mesi di Catanzaro, malinconici nei periodi di riposo, angosciati nei momenti al fronte, a volte infuriati, ma sempre sorretti dalla speranza che la Madonna a cui non manca mai di rivolgere una preghiera, possa comunque proteggerlo. Eugenio scrive le sue quasi quotidiane cartoline postali alla sposa Rosaria in una lingua che non è il dialetto, e che quindi non esprime a pieno i sentimenti, e non è l’italiano che conosce appena. La carta, la penna e l’inchiostro filtrano i suoi pensieri come dei setacci sempre più fini. Di scritto resta soltanto un accenno di quanto vorrebbe dire, e di quanto non sa e in parte non può dire.
“Oggi in punto forse dobbiamo partire e non sappiamo dove ci tocca andare mentre non ce lo dicono mai”, scrive il 18 aprile 1916. Ma non appena alza gli occhi, quella immensa ruota di cui lui è minuscolo ingranaggio si mostra amara e indecifrabile: “Ci tocca andare a Modena poi più avanti. Non c’è chi fare niente perché anche i zoppi devono partire. Pure vi dico che hanno chiamato altre due classi di terza bontà”, scrive da Catanzaro il 30 ottobre 1915 e poi pochi giorni dopo, giunto a Padova rincara: “Siamo come le mosche il mese di agosto e per ogni ora giungono treni pieni di soldati”. A maggio tornerà al fronte.
Per l’ultima volta. “Andiamo adesso nell’accampamento dove dicono che siamo in terza linea e il posto che noi andiamo si chiama Marga Zolle che è una montagna troppo alta e pure dicono che non è tanto cattivo solo che ci sta la neve”. “Siamo giunti alle montagne dello Trentino – annota l’11 maggio – ci sta buona aria fresca e pure la neve, però ancora non si sa cosa dobbiamo fare. Vuol dire che io però quel giorno vi scrivo sarvo che…”. Salvo che, appunto, sia il destino a scrivere per lui l’ultima lettera.
Liberamente tratto dal libro “Vite rubate” di Eugenio Giudice e Vittoria Butera