La partita a carte

Un articolo scritto al passato ma attualissimo, nulla è cambiato.

Al paese di svaghi non ce ne erano tanti.  Le donne passavano giornate intere sugli scalini di casa a ricamare e fare pettegolezzi, gli uomini passeggiavano, parlavano di donne e di sport e giocavano a carte.
Era questo un gioco che conferiva prestigio nel piccolo panorama paesano.
Alcuni giocatori sono diventati quasi una leggenda. A carte giocavano tutti, piccoli e grandi.

Come in tutti gli sport, c’era una scala di valori in cima alla quale c’erano i campioni venerati e rispettati.  Con loro era difficile giocare. Si concedevano poco e non al primo venuto; un onore riservato solo a chi, nel tempo, vincendo più partite, aveva dimostrato di saperci fare.  La partita col campione rappresentava la definitiva consacrazione.

Si giocava a scopa, briscola, tressette e calabrisella. I primi erano giochi che conoscevano tutti gli ultimi riguardavano solo la gente più impegnata.
Si giocava in tutte le ore del giorno, ma le ore del tramonto erano le più indicate in quanto forse il caldo toglieva concentrazione.

Quasi sempre il gioco cominciava in sordina, come di consuetudine  la proposta di iniziare non veniva mai accettata al primo invito ma solo dopo un po’ di cerimonia.
Là inizio era sempre senza spettatori.  Poi qualcuno si avvicinava con indifferenza e accostava una sedia, subito dopo un altro e poi un terzo e un quarto sino a quando intorno si formava un capannello e il gioco diventava sempre più serio.
I giocatori si sentivano osservati, giudicati ed ogni mossa doveva essere attentamente meditata.  Più gente c’era intorno e più lentamente procedeva il gioco.  Le pause diventavano sempre più lunghe.  Mai una mossa affrettata.  La platea richiedeva il massimo rispetto.  Il coinvolgimento diventava generale e la partita vissuta con grande partecipazione.  Si gioca in otto o dieci, la mimica facciale acquista una importanza rilevante.

Il giocatore osserva, riflette e con la coda dell’occhio si guarda intorno.  La sua mano tocca una carta poi un’altra, la sceglie, la solleva, si prepara a giocarla; ma poi ci ripensa e la riporta indietro e se l’amico in platea ha la faccia imbronciata, la mossa è forse avventata.
Altra pausa di riflessione.  Il giocatore finge indifferenza e manifesta sicurezza, perché sa che questa è ritenuta una dote fondamentale.
Si riparte con decisione, la mano si sposta su un’altra carta, si cerca l’impercettibile cenno di assenso dell’amico e la giocata è fatta.
Intorno c’è chi biasima e chi loda.  Da una mossa dipende il prestigio di un giocatore.
Le partite durano una eternità e mai finiscono con la fine del gioco.
Finito il “gioco giocato” comincia il processo, le interminabili discussioni del dopo partita, e anche qua bisogna essere molto abili e mostrarsi sempre sicuri.
E come sempre la vittoria ha tanti padri, ma la sconfitta è figlia di uno solo.  E per quel solo è, una giornata triste, pieno di sfottò, un giorno nero da dimenticare.

 

          Di A. Coltellaro

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