A SARTORIA DE SARINA
Parlando degli antichi mestieri conflentesi non si può non raccontare dei vecchi custulieri, gli odierni sarti. Quella della sartoria era un’arte praticata sia da uomini che da donne e che richiedeva molta pazienza, precisione e versatilità. Il sarto di un tempo era un vero e proprio professionista che, grazie alle proprie abilità manuali, era capace di creare capi di abbigliamento con qualsiasi tipo di stoffa, dalle più pregiate alle più economiche, rispondendo, così, alle esigenze di tutte le fasce della popolazione.
A mastra di un tempo
Quando si aveva la necessità di un nuovo vestito, ci si recava dal sarto il quale prendeva le misure ai propri clienti e tagliava e cuciva l’abito da confezionare. I mastri custuliari e le mastre custulere di un tempo erano affiancati da una bella schiera di discipuli. Ricordiamo con piacere za Lella e Vittorio Paola al casale. Mario Vescio, Nicola e za Girualima, Ida Calabria e Delfina Audino. E ancora Luicina a specchia a Santa Maria poi Lina a barona, za Ntunuzza e Sarina all’Immacolata. Queste persone hanno fatto del loro mestiere un dono, condividendo il proprio sapere gratuitamente con chi aveva voglia e passione di imparare tale mestiere. Le ragazze, infatti, nel periodo estivo andavano a imparare l’arte del cucito. E pian piano si venivano a creare gruppi affiatati.
La prima cosa che dovevi imparare dalla mastra era u suprammanu ossia il sopraffilo. A seguire a gnimatina, ovvero l’imbastitura. Si passava gradualmente alla cucitura dei bottoni e alla famosa purteddhra, vale a dire l’occhiellatura. Il laboratorio della mastra diventava anche un luogo di socializzazione per quelle ragazze che non avevano le odierne libertà. Si confidavano e si raccontavano i loro amori impossibili. Quando la sarta si allontanava le ragazze a bassa voce parlavano dei loro corteggiatori, dei vestiti che avrebbero indossato durante le feste estive. Tra canti, preghiere e cucito passavano i giorni.
E poi i ritagli sotto il tavolo sparsi qua e là e il profumo delle stoffe nuove ripiegate. Ci volle una stagione intera per imparare i punti base. La prima cosa che mi fece fare fu togliere le imbastiture dai vestiti. L’anno dopo ero preparata e Sarina mi affidò il primo vestito da confezionare. Dovevo fare e crucette. Capii che era vietato sbagliare perché la stoffa era costata denaro, aveva un valore. Non mi potevo permettere distrazioni e a ogni passaggio per la creazione del vestito ero più volte controllata da lei stessa per essere certa che tutto fosse fatto nella maniera corretta. Sudavo freddo e la mano mi tremava ma l’abito cominciò a prendere forma. Quando il vestito, dopo giorni di lavoro, era pronto, la mia soddisfazione fu tanta. Lei mi diceva sempre che per capire se un lavoro era stato svolto correttamente bisognava osservarlo al rovescio.
Abiti unici nel loro genere
E poi martedì arrivava Ugo, il venditore ambulante di Pedivigliano, dal quale si rifornivano i sarti. Oltre al corredo vendeva stoffe, foderami e scampoli a metraggio di ogni genere. Le donne toccavano, esaminavano attentamente i tessuti per poter immaginare come sarebbe potuto venire l’abito da realizzare.
La figura della sarta è diventata col tempo un mestiere più complesso e i giovani che intraprendono questa strada non sono molti. E che dire? Un abito cucito su misura è perfetto per il nostro corpo, molto più di un abito confezionato in serie dalle grandi catene di abbigliamento. Un abito realizzato da una mastra è unico nel suo genere.
LE CANTINE
I conflentesi sono stati grandi produttori di vino, ma anche grandi consumatori. Erano in tanti che possedevano un vigneto e, secondo le dimensioni, producevano piccole o grandi quantità di vino che esportavano o utilizzavano per il consumo casalingo.
Un bicchiere di buon vino accompagnava tutti i pasti ed era abitudine costante di offrire ad ogni ospite del vino fatto in casa. Soprattutto rosso.
Ogni tristezza o ogni gioia veniva affogata nel vino e spesso si prendevano delle sonore “piche” che duravano per giorni. Matrimoni, battesimi ecc. venivano celebrati con abbondanti libagioni.
C’era un’espressione che circolava nel paese “Si…. me mbriacu”, voleva dire che se qualcosa si fosse realizzato, la riuscita sarebbe stata celebrata con un’ubriacatura.
Questa grande sete di vino veniva soddisfatta non solo nelle case, ma anche nelle cantine.
Le cantine, o putighe e vinu, erano dei piccoli locali, disseminati in tutto il paese, dove si poteva bere vino locale, preso direttamente dalla botte. Si trovavano quasi sempre in magazzini a pian terreno, senza finestre e quindi scuri.
Ce n’erano tante. A Conflenti Inferiore, in periodi diversi, c’erano quelle di Peppe a Marca; Giuanni a Marca, Michele e Sassina, Stella, Peppe Audinu. Anselmo Calabria, Pasquale u Nivaru , Mariu e Girunnu.
A Conflenti Superiore Nicola e Cicciu a Polina, Maria e Costantino, Russo, Maurilio. Esse erano frequentate esclusivamente dagli uomini del popolino. Ci si andava di pomeriggio o di sera. In alcune si giocava a carte. Si beveva e si parlava. Qualche volta la discussione diventava accesa e scoppiava una lite. Qualche volta c’è scappato il morto.
Perché tante cantine? Un motivo valido è che il vino era davvero buono, rinomato in tutto il circondario e inoltre una volta il paese era molto abitato, dai quattro ai cinquemila abitanti; la gente lavorava duro nei campi e, al ritorno, amava scambiare qualche chiacchiera con gli amici e riposarsi un po’.
Poi, clienti abituali erano gli abitanti delle campagne. C’era un tempo in cui per ogni incombenza i campagnoli dovevano venire in centro paese. Matrimoni, battesimi, funerali si svolgevano nel centro storico. E venivano anche per sbrigare pratiche amministrative, per fare la spesa (non c’erano negozi nelle frazioni).
All’epoca mancavano le strade e, sia all’andata che al ritorno, bisognava fare diversi chilometri a piedi. Quindi molti, per ritemprarsi, facevano una sosta nelle cantine prima di affrontare il ritorno. Non è un caso quindi che esse erano spesso poste strategicamente in prossimità delle vie di uscita dal paese.
Curioso ma vero: le donne non entravano mai nelle cantine e quando qualche volta venivano a riprendere i mariti, che tardavano a rientrare, si fermavano sulla soglia. Capitava però che alcuni di questi locali fossero gestiti da donne. Uno di questi era quello di Maria ‘e Costantino che si avvicendava con la figlia Sina. Quello di Nicola e Polina fu gestito per lungo tempo dalla suocera Tiresina. E, negli anni Sessanta, era ancora una donna a gestire quello in prossimità della stradella.
Di A. Coltellaro
CREDENZE, SUPERSTIZIONI E “AFFASCINU”
La superstizione che ha origini antichissime era molto diffusa a Conflenti, pur se filtrata da un atteggiamento di saggio autocontrollo.
Anche da noi, come in tutti i paesi della Calabria, esistevano dei riti a cui si attribuiva il potere di scongiurare eventi negativi o di propiziarne altri positivi e si credeva alla particolare virtù di piante, talismani o figure speciali come maghi o fattucchiere, per togliere “magarie”, “aduacchiu” o ‘affascinu”.
Ad esempio: alcune azioni era meglio non farle perché portavano male.
Le cose liete o importanti era meglio non farle di venerdì, le posate non si dovevano mettere a forma di croce, come il pane al contrario. Erano guai in arrivo se cadeva a terra l’olio, se entrava in casa un “apunaru” o se si rompeva uno specchio.
Anche ai sogni era attribuito un significato, sognare la morte di un familiare gli allungava la vita e sognare pidocchi prediceva l’arrivo di soldi, mentre sognare uova bianche portava male… e si potrebbe continuare all’infinito.
Ovviamente col diffondersi dell’istruzione e della cultura molti pregiudizi sono stati superati o si ripetono senza convinzione, eppure un forte retaggio rimane ancora molto radicato.
Un forte pregiudizio per i conflentesi è la “jettatura” detta anche “aduacchiu”. Per quanto sia forte il senso religioso nella nostra comunità non si riesce a fare a meno di credere nell’influsso malefico dei sortilegi.
Di conseguenza quando si parla con amici, vicini o conoscenti per evitare di apparire jettatore si ricorre a qualche scongiuro tipo: “foremaluacchiu” o “benedica” e si regala qualche talismano, ferro di cavallo o corno.
Ancora molto misterioso e temuto è l’”affascinu”, che colpisce soprattutto bambini e persone ingenue e credulone, e cioè categorie di persone esposte all’ammirazione della gente e che poco si sanno guardare e difendere. Talvolta basta uno sguardo o una parola di lode o di ammirazione di un amico, anche in buona fede, per restare affascinati.
Per combattere “l’affascinu” nei confronti dei bambini, che provocava ai malcapitati forti dolori e malessere diffuso, si ricorreva spesso a immagini sacre e sale, nascosti in piccole sacche negli indumenti intimi e alla parola “benedica” prima di ogni elogio.
Ma quando ogni precauzione risultava vana bisognava ricorrere ad un complicato intervento, “u carmu”, di una persona esperta. Può “carmare” una “magara” o una “comare” che conosce il rituale segreto, con parole o unguenti. Se durante il “carmu” la comare e l’affascinatu sbadigliano, bene; vuol dire che “l’affascinu’ sta andando via e la vittima guarisce. Se la comare non può venire a casa, basta mandarle un indumento usato e lei opera ugualmente.
Altra credenza molto diffusa tra la gente comune è quella degli “spirduri’ , ossia degli spettri, dei fantasmi, dell’ombra dei trapassati.
Più precisamente “l’umbra” è quella dei morti di morte naturale, “u spirdu” è quello dei morti ammazzati.
Se una persona si trova a passare dal luogo dove, si sa, è stato ammazzato qualcuno deve pensare al fatto concentrandovisi, perché se si passa “sprecurati”, ossia distrattamente “se piglia ru spirdu” e si hanno dei disturbi gravi per cui si deve andare al Santuario ed essere sottoposti a particolari pratiche esorcistiche (un tempo Donnu Stefanu, sacerdote buono e austero era specializzato nel “cacciare spirdura”).
Di Giuliana Carnovale
I DIFETTI DEI CONFLENTESI
De iddru (di lui)…..
Il taccagno (spiluorciu): tene na manu longa e una curta! Un mangia ppe un cacare; Strittu a ra farina, largu a ra caniglia,
L’ afflitto (L’affrittu): Pare n’anima d’u purgatoriu.
Il fortunato: cumu cade, cade a ru mparu.
Il perseverante: circa l’acu intra ‘u pagliaru!
Il rompiscatole (rumpicugliuni): va stuzzicannu i cani chi dormanu!
Il pignolo: va truvannu ‘u pilu intra l’uavu!
Lo stravagante (stravacante): spara ccà coglie ddrà.
Il curiosone: va vidiannu quale furnu fuma.
Lo sfiduciato: dduve arrivu chiantu u palu!
Lo spiritoso. puru i pulici tenanu a tusse!
L’impiccione: petrusinu ogne minestra.
Il malato immaginario: tene ru male du ‘u ddo, mangiare se e fatigare no!
L’opportunista: quannu u gattu un c’è, ‘u surice abbaddra!
Il credulone: crida aru ciucciu ca vola.
De iddra ( di lei)…..
La saputella: scrusciu e scupa nova!
La pessimista: pare ‘na piula!
La riservata: ammuccia, ammuccia, ca pare tuttu.
La timida (spagnusa): se fa russa cumu na paparina.
La bellona: pare na rosa spampulata.
La rugosa (arrappata): pare na trigna sicca.
La magrissima (lenta, lenta): pare nu palu vestutu.
I suoi vestiti sono sgargianti? Pare nu ciucciu d’i zingari.
Le sue calzature sono inadeguate all’abito? È vestuta cumu ‘na rigina e scauza cumu na gaddrina.
Si muove con lentezza? scamacchia ova!
I PORTALI
Conflenti vanta nelle sue antiche costruzioni, pubbliche e private, bellissimi portali in pietra tufacea intagliata. Questi portali sono stati costruiti utilizzando la caratteristica pietra di Altilia, che faceva parte come il nostro paese della contea di Martirano.
Le opere sono frutto di maestranze locali, i maestri scalpellini di Altilia, che si sono quasi sempre ispirati a illustri prototipi di portali e decorazioni presenti nelle zone dell’alto Savuto e più precisamente a Rogliano, che venivano poi rielaborati con gusto e adattati alle esigenze dei committenti.
La feconda attività di questi scalpellini che hanno operato a Conflenti a partire dalla fine del ‘500 è facilmente riscontrabile osservando numerosi manufatti in pietra intagliata ubicati anche nei vicoli meno importanti e a decoro di case che di certo non possono essere definite nobiliari.
Nonostante le incurie del tempo e il gusto discutibile dell’uomo, che spesso per esigenze di confort o sicurezza ha optato per modifiche e portoni in metallo, questi portali mantengono ancora un ottimo stato di conservazione e possono essere ammirati lungo le strade più importanti del paese.
La serena bellezza di questi manufatti resta intatta e non soccombe né alle mode né al progresso tecnologico.
Alla scoperta ….
I portali di Conflenti così come le mensole di alcuni balconi o alcuni fregi ornamentali sono caratterizzati da un comune denominatore costituito dalla sobrietà.
Generalmente molti di essi sono simili nell’impostazione e nell’esecuzione tanto da poter essere sovrapponibili, altri presentano una maggiore articolazione a doppia fascia decorata, forse in considerazione di una migliore posizione economica e sociale dei proprietari.
Altri ancora si discostano completamente dalla quasi serialità dei motivi ornamentali con impianti e intenti scenografici e monumentali direttamente rapportabili al peso e alla forza delle famiglie gentilizie committenti.
Basamento pronunciato con semplici motivi a riccioli, una fascia scanalata, motivi litoformi stilizzati sopra e sotto la mensola di imposta e chiave di volta più o meno pronunciata con tralci o almette o riccioli o volute affrontate, questi i motivi ricorrenti per i portali di casa Paola e Gentile in Via Vittorio Emanuele, di casa Politano e Mastroianni in via Garibaldi di casa Giudice e Stranges alla discesa del Piro.
Impostazione più elaborata, ma analoghi elementi decorativi con qualche piccola variante tra l’uno e l’altro,presentano i portali di casa Pontano, di casa Cicerone, di casa Isabella e casa Folino su via Garibaldi.
Diversi da questi i due eleganti portali di casa Calabria e casa Talarico sempre su via Garibaldi, che presentano una prima fascia bombata ed una seconda fascia coi motivi consueti, ma qui ridotti per non togliere importanza alla voluminosità dell’arco che è chiuso da una ghirlanda di fiori e foglie penduli poste ai lati della chiave di volta.
Casa Vescio
I portali più importanti ovviamente, così come si conviene all’importanza del casato, sono quelli di casa Vescio in zona Piazza S. Andrea.
Questi portali sono caratterizzati da un’impostazione monumentale e da un disegno inconsueto in cui si fondono due prototipi. In pietra calcarea presenta arco a tutto sesto e una doppia fascia. Nella prima fascia bugne rettangolari si alternano a bugne a punta di diamante affiancate, queste ultime , da rosette stilizzate. La seconda fascia è incorniciata da un arco cigliato, decorata in basso con un motivo a palmetta e volute fogliate sopra e sotto i capitelli.
In posizione fortemente aggettante si innesta sulla chiave di volta un elegante stemma a cartiglio, l’unico presente a Conflenti. Il portale è datato fine ‘500.
Il palazzo, il secondo in ordine di tempo, dei tre grandi palazzi appartenuti alla famiglia Vescio nel 1927,per volere testamentario di Raffaelino De Maio, fu lasciato alla chiesa.
Dal 1980 è tornato di nuovo di proprietà della famiglia Vescio, ma rappresenta un patrimonio della comunità di Conflenti e della Calabria intera.
LA CHIESA DI SAN GIOVANNI
In prossimità di Piazza Sant’Andrea, c’è un posto molto bello e caratteristico che i conflentesi ultimamente identificano come funtaneddra, ma che i più anziani preferiscono invece chiamare San Giuanni.
Vogliamo spiegarvene il motivo, perché in pochi sanno che, scendendo dal Piro verso a Chiazza, un centinaio di metri prima di arrivare, a fianco della fontanella, c’è ora una civile abitazione, a dire il vero molto bella e particolare, che un tempo era una chiesa e pure molto importante.
A ben guardare qualcosa si potrebbe intuire dall’enorme portale che dà sulla strada principale, ma essendo la chiesa stata sconsacrata molto tempo fa, non tutti ricordano e sono a conoscenza di questa storia.
La chiesa fu costruita la seconda metà del millecinquecento dai Vescio, una potente famiglia del tempo che da Martirano aveva deciso di spostarsi a Conflenti. Era la loro chiesa patronale ed era stata costruita insieme ai loro bellissimi palazzi a testimonianza della loro forza e ricchezza.
Di questa chiesa parla il Vescovo di Martirano Michelangelo Veraldi in una relazione ‘ad limina del 1699 ed è importante sottolineare che, pur essendo la chiesa parrocchiale di Conflenti dedicata a Sant’ Andrea, la festa originaria del casale era proprio quella di San Giovanni, titolare della chiesa della famiglia Vescio.
Solo un pó di tempo dopo, e comunque anche per volere della potente famiglia, questa festa fu sostituita con quella della Madonna di Visora.
Da allora la chiesa di San Giovanni andò perdendo di importanza e la sua primitiva funzione, finendo gradualmente nell’abbandono del culto popolare.
Ad un certo punto venne sconsacrata diventando addirittura un negozio di pellami.
Fonti storiche tratte dai libri dello studioso Vincenzo Villella
LA FESTA DELL’IMMACOLATA
Da secoli molte tradizioni legate alle festività religiose dettano i ritmi della vita conflentese.
L’Immacolata, festa che apre le porte al Natale, è sicuramente una di queste.
Un tempo il rituale che accompagnava questa festa (ancora oggi una delle feste più sentite dalla nostra comunità), era molto più articolato, ma grazie al lavoro di tanti fedeli è stato comunque tramandato nella sua essenza fino ai nostri giorni.
Le celebrazioni cominciavano il primo dicembre con la novena, che nei tempi passati si teneva alle prime luci dell’alba. La novena era vivamente partecipata dai confratelli della Congrega, che, con camice e mozzetta, assisi sugli scranni, animavano la liturgia con i loro canti in latino.
La confraternita inizialmente era composta solo dai benestanti del paese, ma col tempo si allargò a tutti. Intorno agli anni Sessanta Nzermu Calabria era il tenore e Brunu ‘e Piddricchia faceva il controcanto, mentre il coro, tra gli altri, era composto da Ntoni ‘e Cicciu, Giuanni Bricchiu, Durazziu, Larenzu u minutu. Alla tastiera era sempre Ntoni ‘e Scarpiaddru, mentre il coro dell’assemblea era composto da Michilina ‘a Riapulina, Rusina e Ancilina ‘e Piddricchia, Grazia ’a Zucchetta, Donna Gianna ccu ra viletta e tante altre.
Meritano tutti di essere ricordati, oltre che per il loro impegno, anche per i loro bellissimi soprannomi.
Ovviamente, il lavoro preparatorio iniziava molte settimane prima con la raccolta della legna che sarebbe poi servita ad alimentare la grande focara.
Alla raccolta dovevano contribuire tutti, dai ragazzini che armati di carriole facevano il giro delle case a chiedere pezzi di legno, ai più grandi che trovavano nei boschi pezzi di radici o tronchi di alberi caduti, per finire alle imprese boschive che si occupavano del trasporto
Il momento clou ovviamente era e, rimane ancora oggi, la sera della vigilia.
In quegli anni la festa cominciava con la passeggiata della coppia dei paparagianni, figure grottesche di carta colorata su scheletro di canna, preceduti da Carru ‘e Puddruletta e Filice Sciambarella che suonavano i tommari, tamburo e grancassa battuta con la frusta di castagno, che dovevano sicutare puarci e ricogliare guagliuni, per la fiaccolata.
E di ragazzi ne raccoglievano tanti, ma proprio tanti, che dopo la messa partecipavano alla fiaccolata con i classici scruani mpeciati accesi.
La fiaccolata lungo la via principale, illuminata a giorno da centinaia di scruani, era accompagnata dalla banda musicale.
Al termine della fiaccolata si accendeva la focara e si bruciavano i paparagianni, costati tanti ma tanti giorni di lavoro.
La gente piano piano si radunava intorno al fuoco, dove al suono di zampogne e organetti si mangiava e beveva in abbondanza.
I più arditi ovviamente facevano la rituale capatina ai mandarini dell’orto sottostante.
La focara rimaneva accesa tutta la nottata, alimentata dai ragazzi fino alla mattina successiva, quando gli abitanti della zona offrivano loro caffè e dolci tipici.
Alle dieci, poi, cominciava la messa e la processione. Quindi ognuno a pranzo con la propria famiglia e poi pomeriggio di nuovo all’Immacolata per i giochi popolari: palo della cuccagna, tiro alla fune, pignata e lumia.
Intanto la focara, non più alimentata, si spegneva e finiva la festa.
Oggi il rituale è stato per forza di cose accorciato, ma la festa viene ancora organizzata con impegno e dedizione dalla Confraternita, che cerca di conservare e trasmettere la tradizione alle nuove generazioni.
Fino a pochi anni fa la Confraternita era retta dall’indimenticabile Priore, Rosario Floro, ormai scomparso, che riteniamo doveroso ricordare, perché era lui che si occupava di tutto: dagli scruani, alla legna, alle patate per finire al vino.
Oggi il testimone sembra essere passato al nipote Pasquale, vera anima della festa.
TUTTO FINISCE ANCHE I CARLINI DEL VESCIO
Il casato più importante di Conflenti, soprattutto nei primi secoli, è stato quello dei Vescio.
La loro storia, fino alla fine del 1800 si identifica con la storia stessa del paese e del suo territorio.
I Vescio, che rivendicano origini normanne, agli allori erano di Martirano e si spostarono a Conflenti dopo la rivolta del 1512 contro il nuovo feudatario Andrea De Gennaro, inizialmente promossa e guidata proprio dai Vescio, che mal sopportavano di sottostare al nuovo signore.
Fu coi Vescio che Conflenti Sottani, da piccolo insediamento di pagliare, si trasformò in un vero e proprio casale.
La nuova ricca famiglia costruì il primo palazzo nobiliare sul costone più alto della Rupe che dominava i terreni del loro feudo: il Fiego; e subito dopo costruì anche il secondo palazzo, vicino al primo, insieme alla cappella di San Giovanni, di patronato laicale della famiglia.
Tra le famiglie importanti, quella dei Vescio, i cui palazzi costituirono il vero nucleo urbano del paese, era l’unica ad avere sul portale lo stemma del casato e i loro possedimenti terrieri oltre che a Conflenti, si trovavano a Decollatura, Platania e perfino a Sambiase.
I Vescio contrassero alleanze con le famiglie più potenti della Calabria, e altre legarono ai loro destini con matrimoni mirati, si pensi ai Maione di Grimaldi, ai De Medici e ai De Maio, che addirittura si spostarono a Conflenti.
La potenza dei Vescio del resto si manifestava anche nei confronti dell’autorità baronale ed ecclesiastica ed emerse già nel ‘500 in due occasioni storiche per Conflenti: la prima, l’ospitalità negata per loro volere alla Contessa Cornelia Spinelli, moglie del barone D’Aquino, in occasione della peste del 1579, consci del pericolo di contagio che in effetti poi fece strage a Conflenti Soprani che la ospito’; la seconda, la celebrazione della prima messa nel nuovo Santuario officiata non dal Vescovo, come era logico aspettarsi, ma dal vicario foraneo dei Vescio, Giampiero, e del resto nel nuovo tempio, la potente famiglia erano titolare di ben tre cappelle di jus patronato.
Il loro potere continuò per molto ancora, prova ne è un altro episodio legato a Carlo Vescio, che nel 1724, riuscì a rinchiudere nel suo palazzo un manipolo di gendarmi venuti ad arrestarlo e che liberò solo alcuni giorni dopo averli sbeffeggiati, senza che succedesse nulla.
Il tramonto del potere dei Vescio era però vicino e, già tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’’800, a causa di lotte intestine e di molteplici matrimoni con il conseguente frazionamento della proprietà, il casato iniziava a perdere la sua forza.
Nei primi decenni dell’800 i Vescio cominciarono a vendere le proprie terre e a trasferirsi o addirittura emigrare in America.
Quelli rimasti, ricevevano ancora il titolo di Don, ma dovevano vivere del loro lavoro. Uno di loro trasformò in negozio di pellami la loro vecchia cappella patronale di San Giovanni ormai in disuso, e altri, è il caso dei Dduoghi, vivevano di agricoltura coltivando la vecchia proprietà del Fiego.
Un detto diventato proverbiale sintetizza la vecchia potenza esercitata in passato e il successivo declino deinobile casato: “tutto finisce, anche i carlini dei Vescio”.
Liberamente tratto dal libro di Vincenzo Villella: Conflenti.
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